Aborto e psicologia perinatale

Con “periodo perinatale” (dal greco perí ‘intorno’ al periodo della nascita) s’intende quel periodo di tempo che va dal termine dell’endogestazione (ovvero della gravidanza), sino all’esogestazione (ovvero tutto il periodo del primo anno di vita del bambino). La dottoressa Mirta Mattina, che si occupa anche di psicologia cosiddetta “perinatale”, è stata relatrice del convegno: “La promozione della salute perinatale” (https://youtu.be/0_c81IwcGP0) nel quale ha compiuto considerazioni chiare e condivisibili. Iniziando con l’affermare che sia un obbligo prendersi cura di mamma e nascituro/nato, durante tutto il periodo perinatale e che sia necessario mettere le “persone al centro” nel processo multidisciplinare della salute (ovvero quello che riguarda diversi professionisti), è partita con la disamina dello studio “The costs of perinatal mental health problems” (Bauer, Parsonage, Knapp, Iemmi e Adelaja, 2014) realizzato dalla London School of Economics, che nel 2014 analizzò i costi del mancato intervento nell’ambito della salute perinatale, che sono altissimi in termini economici (il rapporto parla di 8.1 miliardi di sterline), ma che soprattutto si ripercuotono psicologicamente nella salute di donne (nel 28% sul totale) e nuovi nati (nel 72% sul totale) nell’arco di tutta la loro vita, e dei quali la società dovrà poi conseguentemente prendersi cura. Il suicidio materno, dice il rapporto e riporta la dottoressa Mattina, è una causa di morte molto alta durante il periodo perinatale, mentre i tre fattori più importanti di sofferenza mentale sono la depressione, l’ansia e la psicosi: tutte e tre queste dimensioni hanno un impatto sulla madre e sulle «persone che nascono» (parole usate dalla dottoressa). L’impatto economico di tali patologie sulle madri riguardano la qualità della vita e la produttività, mentre l’impatto economico sulla vita delle «persone che nascono» e che vivranno, riguardano la morte pre-natale o neonatale, i problemi emotivi, i bisogni educativi speciali e i futuri problemi di condotta sociale (come quelli con la giustizia). La questione che la dottoressa ha voluto portare all’attenzione, è quella riguardante la prevenzione della salute perinatale che avrebbe un costo esiguo rispetto ai costi che poi la società è costretta a pagare nell’ordine della cura di tutte le situazioni sopra menzionate. La dottoressa Mattina, inoltre, ha poi affrontato la situazione delle difficoltà che incontrano le neomamme italiane, quando rientrano a casa dopo aver dato alla luce i loro bambini. Tra i problemi riscontrati abbiamo quelli relativi all’allattamento (purtroppo ancora la formazione degli operatori, sull’argomento, è discontinua e ben poco approfondita) e quelli che riguardano la sfera dell’adattamento emotivo e pratico alla vita col neonato: certo, sottolinea Mattina, in Italia ci sono i Consultori, che potrebbero fornire un’ “offerta attiva” migliore, se solo lo Stato s’impegnasse maggiormente nella cura dei cittadini di domani (quindi pure delle loro madri). Lo stato di disagio delle donne sul suolo italiano, muove verso il sostegno a costoro «Perché agire sul benessere delle persone, sulla promozione delle loro competenze [la parola chiave è “empowerment” (ovvero dare la forza alla persona perché possa ri-trovare le sue capacità, ndr)] produce sempre degli esiti di salute: il periodo perinatale è così ricco di potenzialità al suo interno, che investire qui significa produrre (…) degli effetti positivi in modo esponenziale, nella vita» (queste le parole pronunciate dalla dottoressa).



Dette così, tali affermazioni ci trovano assolutamente d’accordo, tanto più che nel Primo Rapporto ItOSS riguardante la Sorveglianza della Mortalità Materna (a cura di Dell’Oroa, Maraschini, Lega, D’Aloja, Andreozzi e Donati) pubblicato nel 2019, leggiamo che “L’età media delle donne decedute per suicidio è pari a 33 anni, il 76% è di cittadinanza italiana e il 63% non ha figli da precedenti gravidanze. Quattro suicidi (6%) sono stati commessi in gravidanza, 34 (51%) entro 12 mesi dal parto, 18 (27%) entro 12 mesi da una interruzione volontaria di gravidanza (IVG) e 11 (16%) entro 12 mesi da un aborto spontaneo. La maggioranza delle donne (56/63) ha utilizzato un metodo di suicidio violento, più spesso impiccagione (37%) o salto da luogo elevato (21%). Questa scelta conferma la determinazione dell’intento suicidario e una maggiore gravità psicopatologica”. Ovviamente il Rapporto mette in luce che alcune di queste mamme, ha un passato di sofferenza psicologica o psichiatrica che i servizi sanitari avrebbero dovuto tenere in considerazione, e una delle raccomandazioni che viene fatta è quella di effettuare “una valutazione di routine della storia presente e passata per problemi di salute mentale della donna durante la gravidanza, dopo il parto, prima e dopo una IVG e dopo un aborto spontaneo, oltre a una migliore comunicazione e continuità delle cure tra servizi per la maternità e per le IVG, servizi per la salute mentale, medicina generale e pediatria di libera scelta”.


Attenzione alle parole di tali suggerimenti: la psicologia perinatale dovrebbe occuparsi di tutte queste situazioni che, evidentemente, sfuggono allo sguardo di chi ha preso in carico queste donne, sia quelle che hanno portato a termine la gravidanza, sia coloro che hanno scelto (scelto?) di interromperla. Il Rapporto, infatti, è chiaro: è fondamentale eseguire una valutazione prima e dopo l’evento (nascita o aborto volontario) per intraprendere un servizio continuativo che si occupi della donna.

Le questioni da porre in questa sede sono diverse: se la donna effettua la richiesta di interrompere la gravidanza con la RU486 (che è stato constatato avviene prima dei 7 giorni che passano per Legge tra la richiesta e l’intervento chirurgico), e magari abortisce a casa, sola, e l’aborto (come ebbe a dichiarare Alice Merlo, il volto dell’UAAR per la promozione della RU486) è rapido e pressoché indolore dal punto di vista fisico, come sappiamo lo stato di salute della donna se l’operatore sanitario che le fornisce le due compresse (mifepristone e prostaglandine) e poi le fa il rapido controllo ecografico post abortivo, non ha le competenze, né magari il tempo, per compiere una “una valutazione di routine della storia presente e passata per problemi di salute mentale”?

Forse che quelle 18 donne possiedono un valore inferiore, rispetto a quelle che i gruppi pseudofemministi pro-aborto? Forse che alcuni operatori siano impreparati a tali situazioni? O forse ci sono operatori che potrebbero avere il dovere di conoscere le conseguenze dell’aborto volontario, ma facendo parte di alcuni gruppi pseudofemministi, preferiscono tacere tatticamente, gettando nel vuoto la memoria di quelle 18 donne che si sono violentemente tolte la vita?

La dottoressa Mattina redige articoli di psicologia perinatale e si occupa di promozione della pedagogia “dolce”: per esempio è stata relatrice al ‘Congresso Nazionale Nuova Educazione’, scrive di allattamento e sonno infantile [per esempio nell’articolo Sonno dei bambini, la salute non si promuove facendo confusione (https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/26/sonno-dei-bambini-la-salute-non-si-promuove-facendo-confusione/5063261/], ma scrive anche di aborto volontario, perché fa parte di un’associazione – la Freedom for Birth Action Group, collegata al collettivo femminista Non Una Di Meno - che promuove la prevenzione della cosiddetta “violenza ostetrica” (insieme di azioni che danneggiano la donna fisicamente e psicologicamente durante la nascita del suo bambino) che avviene, a parere di NUDM, anche quando a una donna che vuole abortire è impedito di farlo nel modo da lei scelto oppure trova il solito medico obiettore (https://nonunadimeno.wordpress.com/2016/11/17/matrioske-contro-la-violenza-ostetrica-freedom-for-birth-rome-action-group/). Durante il Convegno delle Famiglie, avvenuto a Verona nel 2019, pubblicò un articolo, con il beneplacito dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, dal titolo Congresso famiglie, perché è sbagliato (e falso) dire che l’aborto è sempre doloroso (https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/31/congresso-famiglie-perche-e-sbagliato-e-falso-dire-che-laborto-e-sempre-doloroso/5075825/) nel quale, tirando fuori alcuni studi* che sono stati più volte criticati da diversi autori e professionisti, la dottoressa Mattina mira a sottolineare il fatto che la sindrome post-abortiva non è dimostrato scientificamente che esista e che, comunque, ci sono donne per le quali abortire non è un problema poiché scevre da sensi di colpa indotti da cultura o religione. Tra questa documentazione sono citati gli studi “Turnaways”, che volevano dimostrare che quando alle donne viene rifiutato l’aborto accusano sofferenza psicologica, ma il dottor Reardon dell’Elliot Institute (che si occupa di post-aborto) dimostrò essere fasulli scrivendo «Le donne e i loro cari che stanno affrontando la possibilità di aborto meritano di meglio che ricevere false informazioni che potrebbero portarli a sottoporsi a una procedura che può contribuire a danni, traumi e rimpianti».

Già, come dicono le Feminist for Life, una donna vale molto di più di un aborto: le famiglie debbono poter avere di più dai servizi alla salute perinatale, come il sostegno alla vita che non deve solo giungere da associazioni private (come i CAV), ma che dovrebbero essere offerti dallo Stato tramite quei mezzi che la dottoressa Mattina conosce bene: per esempio l’approccio multidisciplinare che mette al centro la persona che possa essere valutata con molta attenzione, magari prima che, com’è già accaduto ad altre donne, muoiano impiccandosi perché non si danno pace dopo aver abortito. Certo, magari il gruppo femminista del quale la dottoressa Mattina fa parte (NUDM) che è contro l’obiezione di coscienza e certamente contro i CAV nei consultori, dovrebbe magari ampliare il suo sguardo verso la “perinatalità” di ogni donna, non solo di coloro che aspettano o hanno messo al mondo un bambino desiderato, ma anche di chi, trovandosi un bimbo nel proprio ventre, magari avrebbe bisogno di empowerment che, come dice Mattina: «produce sempre degli esiti di salute: il periodo perinatale è così ricco di potenzialità al suo interno, che investire qui significa produrre (…) degli effetti positivi in modo esponenziale, nella vita». Chi sta a fianco alle donne e le aiuta a non abortire, lo sa da decenni: gli effetti positivi sono esponenziali, quando una donna che vorrebbe abortire non lo fa grazie a chi crede in lei (“empowerizzandola” potremo dire) e otto mesi dopo culla il proprio bambino magari chiedendosi come ha potuto pensare di sopprimerlo…


*Uno di questi è dell’American Psycological Association che si rifiutò di includere gli studi del professor Fergusson sulla percentuale di donne che dopo l’aborto maturano sofferenze psichiche (lo studio è ampissimo e ne parla il dottor Renzo Puccetti in “Vita e morte a duello” e in “L’uomo indesiderato”: pubblicazioni eccellenti e inattaccabili), tantoché il professore australiano affermò – lo leggiamo in “Vita e morte a duello” - « Personalmente sono a favore della scelta della donna ed è ovvio che non sto seguendo nessun intento che non sia fare una scienza ragionevole su un problema difficile” (…). “Il nostro studio è fortemente suggestivo per un legame tra aborto e sviluppo di malattia mentale. Quello che le persone dovrebbero dire è che questo dato è interessante… c’è bisogno di ulteriori ricerche per rispondere a questa importante questione».

Articolo in evidenza

Formazione completa per un'Ostetricia Cattolica

Attualmente la formazione ostetrica si basa sui corsi universitari e sugli enti formativi post-universitari. Alla professione ostetrica univ...