Intervista a Diana Panfili, ostetrica

Conobbi Diana Panfìli nel 2007: giovane studentessa di ostetricia, mi stavo arrangiando a corredare la mia tesi di laurea di qualche strumento importante per incuriosire le ostetriche nei confronti della loro professione, sfruttando il fatto che io avevo scelto di formarmi in tal senso quando ero già mamma e avevo vissuto l’ostetricia “al di qua” del lettino da parto. Ero intenzionata a far comprendere quanto l’informazione e l’apprendimento tecnico fossero necessari, ma quanto lo fossero parimenti l’empatia e la preparazione umana. Nella fase finale della mio periodo universitario ero già sotto tiro di una cosiddetta “triangolazione di fuoco incrociato” per il fatto che mi mostravo apertamente a favore della fisiologia della gravidanza e della nascita, in un ospedale dove – all’epoca – la donna cesarizzata veniva sottoposta di nuovo a cesareo senza tante cortesie: le giovani colleghe non figli-munite che avevano più tempo per studiare (e alcune per darmi apertamente contro, ma le perdonai immediatamente quando capii che la loro era un po’ immaturità, un po’ la “foga per la battaglia”), la mia responsabile del tirocinio (una di quelle ostetriche che riesce difficile credere che sia una “donna per le donne”) e il presidente del mio corso di laurea (che non perse l’occasione per trattarmi in modo un po’ maleducato e per il quale mio marito attende, fiducioso, le scuse). 
Mi ero messa di “buzzo buono” per redigere una tesi di laurea che parlasse dell’assistenza alla nascita in modo rispettoso e multidisciplinare, ma lo feci nel periodo culturale nel quale la donna meno veniva rispettata in sala parto: partii con l’idea di fornire spunti di contatto tra l’arte ostetrica dei tempi delle condotte e dei parti naturali, e l’ostetricia dei decenni della medicalizzazione, ma – come direbbe Giovannino Guareschi – mi “scapparono i cavalli” e, più che una tesi, divenne un libro di protesta. Fui talmente contrastata, alla discussione della tesi (della quale posseggo il filmato che ogni tanto vado a vedere, giusto per ricordarmi il motivo delle mie battaglie), che negli anni a seguire le giovani studentesse mormoravano il mio nome aggiungendo particolari che ritenevano “succosi” e palesemente architettati, alla mia vita privata e pubblica: un giorno avevo dieci figli partoriti a casa, un altro avevo fondato un club privato che prometteva di rovesciare il potere del ginecologo maschilista e opprimente. La realtà è sempre stata differente, ma non ho mai attivamente contribuito a modificare tali voci, un po’ perché mi divertivano moltissimo, un po’ poiché mi vedevo svolazzare nei corridoi dell’ospedale come un poltergeist dispettoso, come Pix (che disturba professori e studenti della scuola per maghi in “Harry Potter”).



Una delle persone che ho avuto il pregio di conoscere durante quegli anni, è certamente lei: Diana Panfìli ha 81 anni ed è una di quelle ostetriche che, quando risponde al telefono, ti apostrofa sempre cordialmente – anche se non ti conosce - «Amore, dimme: che posso fare per te?» (la cadenza è perugina e lei si vergogna, sbagliando, di non saperla contenere). La confidenza è subito forte e la fiducia nasce immediatamente: è francamente impossibile che una donna non si affidi a lei per partorire. Quando l’ho risentita, a distanza di dieci anni dalla prima intervista che le feci, mi ha fatto molta tenerezza: è disponibile, ottimista, affettuosa e molto umile.


Quando ti sei diplomata, Diana?


«Nel 1960. In realtà nel 1959, ma feci un anno di “specializzazione” (ovvero volontariato). Il mio professore si chiamava Valle e frequentavo la scuola a Perugia».


Cosa si studiava, all’epoca della scuola di ostetricia?


«All’epoca si frequentava da allieve esterne o interne. Io ero interna: vivevo dentro la scuola anche grazie a una borsa di studio. La scuola era anche convitto: ci alternavamo in turni per lo studio e il tirocinio. La pratica era superiore a quella chi frequentava da “esterna”».


Come mai hai scelto di fare l’ostetrica?



«Sembra impossibile per come poi ho amato questo lavoro, ma io avrei voluto fare la maestra. Tuttavia la scuola a Città di Castello per diventare insegnante costava troppo e c’era già mia sorella che faceva l’ostetrica. Dopo è diventata una missione e lo scopo della mia vita».


Dopo il diploma cosa hai fatto?


«Dopo la “specializzazione” sono diventata condotta».


Come si nasceva, nel 1960?


«Sicuramente fino al 1980 si nasceva a casa e si andava in ospedale solo in casi particolari: travaglio lungo, patologie … l’ostetrica ce l’ha la sensazione che un parto vada bene o vada male fin dall’inizio: solo in quel caso si andava in ospedale. Le ostetriche possiedono un po’ d’intuito e l’aiuto del Signore: questa è una professione che, specialmente a casa, deve avere la mano del Signore. Sei senza il medico e non si può fare da sole (ecco l’umiltà della quale tante ostetriche avrebbero bisogno, ndr): ci vuole sicuramente un grande aiuto. Per un certo momento c’era solo il medico di condotta, che io chiamavo sempre e che mi brontolava. Erano sempre disponibili, i medici, senza orari e senza riposo. Come le ostetriche: c’erano per tutte le donne, dalla gravidanza in poi. C’era la gravidanza, il parto, poi tutto il puerperio. Poi c’erano le malattie dei bambini … venivamo chiamate per tante cose delle quali aveva bisogno il bambino anche se non eravamo pediatri (ride). Sempre disponibili, eravamo».


Che differenza di preparazione c’è tra le ostetriche di allora e quelle di oggi?


«Sicuramente eravamo più preparate: sapevamo distinguere la patologia dalla fisiologia. Adesso sono tanto informate, sono sicuramente “evolute” negli studi sicuramente (intende dire che adesso si frequenta l’università mentre prima c’era la scuola: a diciotto/vent’anni si iniziava a lavorare, ndr), ma sono insicure. Forse negli ultimi dieci anni è tornata un po’ la passione dell’assistenza al parto in casa, ma dagli anni ’80 sino al 2010 circa, poche ostetriche se la sentivano. Io ne conosco una molto preparata anche umanamente, attualmente. È prudente come me: non è che si è delle brave ostetriche solo se si assiste al parto in casa, però! Quando c’è bisogno del medico, bisogna rivolgersi tranquillamente a lui. Personalmente mi sono sempre trovata bene coi dottori: avevamo molta fiducia reciproca. Le ostetriche non devono essere diffidenti, e viceversa. Io chiamavo in ospedale prima di portare la donna, allora i medici dicevano ‘Arriva Diana: allora è importante!!’. Mi davano fiducia e io avevo fiducia in loro».


Ti ricordi il tuo primo parto?


«Certo! Doveva partorire una parente di un sacerdote, allora mi sono fatta benedire la borsa ostetrica con tutti i ferri che mi erano stati dati perché avevo vinto la borsa di studio. Ho girato un po’ tutta l’Umbria: mi accompagnava mio marito che rimaneva fuori in macchina a pregare: se c’era freddo si portava la coperta. Se il travaglio andava per le lunghe, io uscivo e gli dicevo ‘Terenzio mica stai pregando tanto bene, sai?!’ (ride).


Ma i miei successi non sono personali: c’è sempre stato l’aiuto del Signore! Ho assistito a 5780 parti in casa e non è mai successo nulla. Anche se c’è chi m’ha superato: ti ricordi Maria (Pollacci, ndr)? L’hanno ricevuta pure in televisione!! (cfr Intervista a Maria Pollaci).


Assisteresti ancora in casa?


«Io ci andrei, ma mia figlia non vuole. Si preoccupa: quando diventiamo mamme e le nostre figlie crescono, diventano le nostre mamme e noi diventiamo figlie … Lo dice pure la Bibbia!»


Com’è cambiata l’assistenza da quando sono state chiuse le condotte?


«Si è molto medicalizzata … Negli anni ’80 c’erano sempre l’episiotomia, la manovra di Kristeller (quella che si fa alla donna supina, immobilizzandola e premendo con forza sul suo addome per agevolare il parto e che personalmente ritengo violenta, ndr), il forcipe, la ventosa … La donna stava sempre sdraiata, mentre in casa la donna può cambiare posizione: anche un periodo espulsivo, che spesso è lungo, necessita di calma e rispetto. Invece spesso i medici credono, dopo che l’utero si è dilatato, che il bambino debba nascere da un momento all’altro, mentre sappiamo che ci possono volere anche quattro ore: è normale se il bambino è il primo! Adesso, dalle mie parti, è differente: aspettano di più e la donna è più libera di muoversi. A volte purtroppo è rimasta l’abitudine di far partorire la donna supina … Mentre io ho assistito le donne a carponi, accovacciate … Cioè sono un po’ più umani, anche se la donna è sempre comandata: appena arriva le mettono l’agocannula (per eventuali flebo ndr), le fatto l’elettrocardiogramma, il monitoraggio (cardiotocografia: serve per conoscere l’attività contrattile dell’utero e l’attività cardiaca del feto, ndr) … e le donne si “spiazzano”. Le donne si adattano, poverine. Alcune no, cercano di imporsi, ma non è facile. Io dico loro di dire sempre alle ostetriche e ai medici in che posizione vogliono stare».


Hai mai sentito parlare di “Violenza Ostetrica”?


«Ne ho sentito parlare, ma l’ho anche potuta constatare da sola. A volte ho portato le donne in ospedale e ho visto assistere facendo cose che io non avrei mai fatto: la Kristeller, per esempio. Poi non la fanno mai scendere dal lettino … E se il bambino è messo in una posizione non fisiologica e basterebbe far muovere la donna, per agevolarlo a prendere la posizione giusta, non lo fanno … Penso alla “rotazione sacrale” (avviene quando la parte posteriore della testina del bambino – occipite - fetale, invece che trovarsi a nascere verso l’osso pubico della mamma, si trova in corrispondenza del coccige materno: il travaglio è un po’ più difficoltoso, ma non impossibile se alla donna non viene messa fretta. Personalmente ho partorito tre figli “posteriori” e le colleghe ostetriche non hanno mai avuto problemi, ndr) nella quale bisogna avere pazienza perchè il bambino ci mette un po’ di più, a scendere … Se però il medico ha fretta e fa stare la donna sdraiata, è un problema. Questa è violenza, per me».


E violenza verbale?


«Una volta sì. Tanta. Le donne erano terrorizzate dei medici e delle ostetriche. Adesso meno, ma una volta, a Perugia, mi trovai ad assistere una ragazza di “quelli naturalisti” (si tratta di un gruppo di persone che si fa sempre assistere da Diana e alle quali lei è affezionatissima: vivono nelle campagne e lavorano la terra, ndr) che aveva bisogno dell’ospedale. Ci trovai una mia collega che aveva studiato con me. La donna urlava (sono sempre libere di esprimersi, le donne, quando soffrono) e la mia collega mi disse in sua presenza che era l’ora che io la smettessi di assistere “Capelloni merdosi”. Io ci rimasi malissimo e le risposi, con tutto rispetto, che per me “merdoso” è chi tratta male le persone per come sono. Io sono molto affezionata a questi ragazzi “naturalisti” e loro mi cercano anche dopo anni, per salutarmi. Anche a mio marito! 
Ma non mi è successo solo una volta. Tante volte. Quando le donne spingono male. Quando urlano. Ci rimanevo tanto male. 
Invece alle donne basta poco: stringere la mano, parlarci piano, accarezzarla. Un parto può mutare da patologico a fisiologico, e questo le ostetriche che stanno a fianco alle donne lo sanno bene: l’aspetto psicologico deve essere curato. 
Adesso le ostetriche più giovani sono più tranquille: trattano meglio le donne. Ma negli anni ’80 e ’90 no: tante ostetriche erano scorbutiche. E io mi sono sempre comportata bene, quando ero in ospedale ad accompagnare la donna (si riferisce al fatto che tante ostetriche libere professioniste vengono maltrattate dalle colleghe ospedaliere, quando accompagnano le donne a partorire in clinica e, viceversa, c’è molta acredine verso le ostetriche ospedaliere da parte di ostetriche libere professioniste. Purtroppo. Ndr)»


Come mai il parto si è medicalizzato?


«Quando uscì la legge dei consultori (1975, ndr) e furono chiuse le condotte ostetriche e le donne, [costrette dal fatto che i parti in casa si pagavano in quanto l’ostetrica fu costretta a scegliere tra libera professione (che lavora prevalentemente a casa) ed essere dipendente pubblica (ospedale, ambulatori e consultori) ndr], dovettero piegarsi a partorire in ospedale. Io ne ho sempre avuti, di parti in casa, le ostetriche che vogliono assisterli sono andate diminuendo drasticamente. Purtroppo l’ospedalizzazione ha portato verso la medicalizzazione: tanti forcipi, tanti cesarei. È vero che il battito cardiaco del bambino “sballa” un po’ durante il travaglio, ma è normale: non è sempre patologico e non sempre c’è bisogno del cesareo. Se un travaglio è seguito da un’ostetrica, i cesarei dovrebbero essere meno».


Le donne allattano da sempre. C’è stato un momento in cui le donne non hanno allattato, invece. Come mai?


«Purtroppo c’è stato un momento, contemporaneamente a quando le donne hanno cominciato ad andare in ospedale per partorire, durante il quale le donne non erano supportate. Nessuno le aiutava ad allattare. Circa negli anni ’80 e ’90, comunque. Adesso va meglio: certo, magari c’è sempre la donna che ha poca pazienza o che non è aiutata, ma ora pare essere un problema superato. Adesso sembra proprio che si preparino meglio, soprattutto se partoriscono in ospedali piccoli: in quelli più grandi c’è troppa confusione, evidentemente».


Parliamo di aborto, Diana?


«Oh Dio no! Io non sono d’accordo! Lo so che nei consultori le ostetriche sono d’accordo, ma per me nessuno può decidere di uccidere una vita: soprattutto le ostetriche!! L’ostetrica deve essere promotrice di vita. La missione contro l’aborto è una missione importantissima!»


Di fronte a un’ostetrica che dice che il diritto della donna di abortire è più importante del diritto della vita del bambino, cosa rispondiamo?


«È una cosa grave. La vita del bambino è più importante della vita della donna, a meno che non sia ella stessa in pericolo. Un figlio è più importante del genitore. È più importante la vita di un figlio, piuttosto che la comodità di un genitore. Certo, chi ha pochi valori è difficile da convincere, ma a volte ci si fa.
C’è una bambina che viene sempre a trovarmi e che ci chiama “Nonni!”, che sarebbe dovuta essere abortita perché il compagno della mamma non la voleva, ma io convinsi la madre … (si commuove, ndr)».


Come stanno le donne che hanno abortito, dopo?


«Male. Hanno dei traumi psicologici che durano tutta la vita. Alcune non sentono nulla: lo fanno una, due o tre volte … come un anticoncezionale. Ma sono persone superficiali. E sono pochissime. Le altre si ricordano sempre, come se fosse un “marchio”. Si ricordano i compleanni che potrebbero essere stati del bambino. Calcolano l’età, se fosse nato. Quando muore un figlio, prendono sensi di colpa anche se sai di non essere la causa di quella morte (Diana ha perso una giovane figlia per cause naturali, conosce bene quelle emozioni. Ndr), figurati se sai di essere la causa della morte di quel figlio … Purtroppo le donne, se sono sole, se sono prese dall’angoscia e nessuno le aiuta, non riescono a resistere e, prese da mille timori – alcuni comprensibili – abortiscono. E tante si pentono subito dopo aver abortito».


Le donne che si recano nei consultori e vogliono abortire, vengono aiutate a non farlo (come dice la legge 194/78 ndr)?


«In quei sette giorni di tempo bisognerebbe che qualcuno ci lavorasse un po’, per non farle abortire proprio tutte. I consultori hanno un grande potere: ci vorrebbero ostetriche preparate ad aiutare le donne a trovare altre soluzioni, ma in linea di massima, nei consultori, ci sono solo ostetriche favorevoli all’aborto. Io ne conosco solo una che cerca di aiutare le donne a non abortire, ma è osteggiata dalle colleghe. Per esempio i CAV lavorano bene (aggiunge che a Terni sa che ce n’è uno che lavora bene, ndr): non costringono la donna a non abortire, ci mancherebbe, ma le forniscono gli strumenti adeguati perché lei scelga la vita di suo figlio. Sono dispiaciuta del fatto che ci siano ostetriche tanto brave anche nell’assistenza all’allattamento, che però sono tanto a favore dell’aborto: quella legge la tengono tanto in primo piano! È come se facessero finta che l’aborto fosse l’ultima ratio, ma in realtà è la prima scelta proposta quando vanno da loro le donne che hanno problemi a portare avanti la gravidanza. Purtroppo anche le psicologhe non mi convincono: sono brave con le donne se si tratta di preparare la gravidanza, ma l’aborto non lo discutono».


Se tu diventassi la Presidente della Federazione degli Ordini della Professione Ostetrica, c’è qualcosa che cambieresti nella preparazione delle ostetriche?


«Prima di tutto il comportamento, perché l’approccio con le donne è importante. Forse oggi studiano tanta teoria, ma poi non sanno bene come si sta a fianco alla donna. Le stimolerei a far sì che le ostetriche stesse aiutassero le donne a riappropriarsi del loro parto. Anche i metodi naturali dell’ovulazione sarebbero interessanti, per le ostetriche».


E dell’utero in affitto, che mi dici Diana?


«Queste son proprio cose brutte. Ma sarà osteggiato dalle ostetriche, no?»

Me lo chiede con ansia e io le rispondo che per ora gli organi di rappresentanza delle ostetriche e delle associazioni per l’allattamento non hanno preso posizione ufficiale. La risposta di Diana, con tono ironico, è: «Che carini!» e aggiunge, cambiando tono e manifestando preoccupazione: «Ma che vuol dire? Che sono d’accordo?». Le rispondo che mi auguro di no, poiché l’utero in affitto è un aspetto della violenza contro la donna. Mi chiede cosa ne penso e siamo d’accordo con dire che l’utero in affitto sia aberrante. La incalzo ulteriormente sull’argomento e le chiedo, a suo parere, il motivo di tale mancata presa di posizione. «Forse per essere emancipati?» mi chiede. «Però questa che emancipazione è? È un po’ come l’aborto: neppure quella è emancipazione. L’aborto è contro la donna». Le racconto dei movimenti femministi pro-vita provenienti dall’America (cfr L’onda del “femminismo prolife”) che si battono perché la donna possa portare a termine la gravidanza e lei si dimostra d’accordo sui presupposti e sulle soluzioni offerte dalle associazioni pro-life che sostengono la maternità (per capire qualcosa in più della situazione del femminismo pro-life, è possibile consultare anche l’articolo La lotta femminista può solo essere pro-vita, se la è la salute delle donne)».


Se ci fosse un partito che proponesse un reddito che consentisse alle donne di fare le mamme per i primi otto anni di vita del bambino, e che consentisse, quindi, anche alle donne sole di non abortire, lo voterebbe?


«Ma mi stai parlando del Popolo della Famiglia?»


Sì!


«Ma io quello già lo voto!»

La Croce Quotidiano, 28/05/2019

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