Intervista a Maria Pollacci, ostetrica

 Maria Pollacci è un’ostetrica. Scordiamoci però tute verdi e camici bianchi, poiché Maria è diventata ostetrica nel 1945 e una tuta verde non le sarebbe servita a nulla, quella notte che – a 21 anni – dovette fare cinque chilometri a piedi, per assistere una mamma in travaglio del quinto bambino. Cominciamo con questi due dati, per capire bene di chi stiamo parlando. Un fuoco del camino e un papà che la va a cercare perché assista la moglie. Mettiamoci pure anche mezzo metro di neve in un’ora e il racconto è fatto.


Ma questa non è una favola: è storia vera. Storia di una donna che ha fatto della propria professione una vocazione, e non si è limitata al mestiere: «Quello serve per guadagnare – mi dice – ma l’ostetrica non è una persona qualsiasi! L’ostetrica aiuta due vite a percorrere una strada! Una diverrà madre, l’altra figlio. Non può essere solo un mestiere!». Ci tiene, Maria, a far capire che lei non ha scelto di fare l’ostetrica perché non sapeva come guadagnarsi il pane, ma perché ha sentito la vocazione. Una vocazione, lo ripete più volte, che unisce amore per il prossimo e umanità, avendo come tramite la preparazione e la competenza per essere capaci di stare a fianco alla donna.


E una volta bastava aver fatto tre anni di scuola dopo le medie, per esserlo, perché di bambini ne nascevano e la pratica era tantissima.


Ma torniamo a quella donna e ai suoi bambini, che aspettano Maria per conoscere il fratellino: alla professione ci torneremo poi.


«Il mio primo bambino è nato il 3 dicembre 1945 e adesso è nonno!!» racconta Maria ridendo. «E uno dei primi parti ai quali ho assistito appena diplomata: terminò con un’emorragia post-parto per la quale dovetti mettere subito in atto tutta serie di manovre acquisite durante il tirocinio, anche poiché purtroppo non c’era medico, in quella condotta. Menomale che avevo fatto tanto tirocinio!».


«Quella volta che rimasi con la donna e la sua famiglia a causa della neve, lo feci volentieri e mi occupai dei bambini, mentre il marito della Signora si dava da fare per fare il formaggio e perché alla moglie non mancasse nulla. Che spavento che mi prese, quella notte! Il parto andò bene, ma la placenta non veniva via! Il medico era impossibile che venisse fin lì con la neve e il marito mi disse che si fidava di me. Levai la placenta a mano (manovra che solo un medico può portare a termine, ndr) e, una volta finito, ero stata talmente tesa che mi tremavano le gambe! Dissi al marito che era andato tutto bene e lui pianse come una fontana per la felicità. Poi mi offrì un grappino per tirarmi su».


I racconti che Maria mi fa, sono diversi e le sue parole scorrono chiare, anche se si percepisce chiaramente che le cose, adesso, sono proprio cambiate. E che a lei non sta proprio bene.


Maria, come si diventava ostetriche?


«Si poteva fare la scuola da allieve esterne o da interne. Io feci il primo anno da esterna, ma poi il secondo e terzo anno da interna. Fui dichiarata ostetrica e rimasi a scuola per sei mesi dopo il diploma. Ero brava e mi ero fatta voler bene, così la mia Maestra Ostetrica mi trovò subito una condotta. Si faceva tanta pratica al contrario di quello che fanno adesso le colleghe. Si imparava a fare diagnosi: imparavamo bene a capire dov’era la testina, dove il corpo, i piedini. Imparavamo ad assistere i podalici (ne ho assistiti tanti), a disimpegnare le spalle, a non lacerare la donna. Oltretutto nascevano almeno tre bambini al giorno per ostetrica: certo che la pratica era tanta! Quando andai in condotta avevo già molta esperienza! Evidentemente insegnavano bene, all’epoca, perché io, benché le prime volte mi è capitato di spaventarmi tanto (ride, ndr), mi sono trovata ad assistere eclampsie, gravidanze extrauterine, a fare secondamenti manuali (come quello che accadde alla signora presso la quale stetti a casa dieci giorni a causa nella neve) e ad assistere emorragie post parto. Ovviamente sapevo quello che dovevo fare, capivo cosa stava succedendo e non mi è mai morta nessuna donna. Sapevo fin dove arrivava la mia professione e dove era necessario il medico».


Ha mai avuto paura?


«Io credo che quella volta che mi trovai a togliere da sola la placenta, fu il mio battesimo professionale. Ho sempre pensato che se mi fosse morta la donna, non avrei più esercitato. Mai più. Invece il Signore mi ha aiutato ed è andato tutto bene!».


A proposito di questo, il peso morale che sentiva sulle sue spalle era forte, giusto?


«La prima volta che ti vengono a chiamare per assistere una donna, ti accorgi che sei sola. Non hai la Maestra che può intervenire o un dottore che ti sostiene. L’emozione della professione è forte: senti di avere una responsabilità mostruosa! Due vite dipendono da te!».


Cosa ne pensa che ci siano ostetriche che, nonostante il fatto che combinino dei guai, tornino comunque a lavorare, e magari a fare convegni e a insegnare?


«Quando sento certe cose io sto male. Mi perdoni, ma chi fa l’ostetrica non deve studiare per avere un lavoro così come gli altri: non è un lavoro, il nostro. Il nostro è dare amore mentre (le donne) stanno partorendo. Dare amore, non ricevere soddisfazione personale (lo ripete diverse volte, ndr). Il mio non è un mestiere! Io sono lì per amore. Per cercare che la donna soffra il meno possibile, e il bambino lo stesso! Sei lì per far capire alla donna che ci sei per aiutare lei e il suo bambino! La nostra professione è una missione: ci vuole amore, umiltà, competenza per cercare di stare a fianco alla donna in un momento così importante. Il rapporto che cerco d’instaurare con la donna quando la conosco, è umano, confidenziale, di amicizia fin dal primo momento in cui ci conosciamo e perdura nel tempo anche dopo l’evento (il parto). Non per questo ne perdo del mio ruolo: anzi, ne guadagno in rapporti umani e in affetti».


Oggi come oggi le ostetriche non si sentono libere nella loro professione, mentre invece, quando c’erano le condotte, le ostetriche avevano mano libera…


«Avevamo mano libera, certo, ma eravamo preparate!! Come fanno oggi le ostetriche? Come farebbero ad andare in condotta, poverette, che sono piene di teoria e di pratica non ne hanno! Ma invece di far tanta teoria, insegnate loro la pratica!».


Ma neanche se aumentassero gli anni di università?


«Ma no! Le cose che deve sapere l’ostetrica non sono tantissime e s’impara guardando e facendo. Anni in più per fare cosa?».


Infatti purtroppo ci sono pochi bambini che nascono, quindi pratica poca.


«È vero! Come si fa a fare bambini se non c’è lavoro? Bisognerebbe aiutare le donne a fare le mamme!»


Quando chiusero le condotte, fu detto alle ostetriche: “O lavorate in ospedale o fate la libera professione”. Ci fu bisogno di arrivare agli anni ’90 (L.42/1999, D.M. 740/1994, ndr) perché le ostetriche raggiungessero un’autonomia professionale (fino a quel momento le ostetriche erano ‘ausiliarie’ del medico, ndr), pur tuttavia l’opinione di molte ostetriche è che la medicina priva di libertà le ostetriche e che le assistenze siano decise dal medico, siano “medico-centriche”. Che ne pensa? Non si è mai sentita inferiore al dottore?


«Ma assolutamente no! Ero certissima delle mie competenze e di quelle che sono del medico! Il nostro lavoro non è solo assistere al parto, non è un mestiere. È sapere che dalle tue mani dipendono due vite: quella della mamma e quella del bambino! Ho sempre lavorato con dottori che mi hanno stimato e io ho stimato loro. Ho anche insegnato, a volte, ad alcuni medici che non avevano mai visto parti. Le ostetriche sono quelle che stanno a fianco alle donne, assistono la donna. Il medico veniva chiamato solo al bisogno. Il medico è uno che deve risolvere qualcosa che non funziona, non è uno che deve stare a fianco alle donne. Adesso stazionano lì in sala parto anche perché i parti sono sempre “comandati” dalle medicine (si riferisce alle induzioni e alle accelerazioni di parto che cagionano assistenze medicalizzate se non tagli cesarei, ndr). Forse stanno lì perché sanno che può succedere qualcosa. Una volta le donne stavano lì in travaglio e noi ce ne occupavamo: i medici non entravano se non c’era bisogno perché tutto era più naturale. C’era fiducia e stima reciproca. Una volta ci si adattava di più: se la Maestra Ostetrica dava indicazioni, bisognava obbedire. Adesso le ostetriche, anche se sono giovani, vogliono fare quelle che sanno tutto. Non c’è più umiltà.


L’ostetrica deve sentire la professione, come una maestra sente l’insegnamento. Come la maestra ha la responsabilità d’insegnare ai suoi allievi, l’ostetrica ha la responsabilità di due persone. È una vocazione! Certo, se un’ostetrica è in ospedale, ha le spalle un po’ coperte, ma questo non la esclude da essere importantissima per il medico, per essergli d’aiuto. L’ostetrica segue la donna fin dall’inizio, poi se deve chiamare il medico deve sapergli spiegare le cose ed assisterlo tranquillizzando la donna. Quindi se dovessi “progettare” un’ostetrica, è fondamentale che la ami, la professione. Deve amarla davvero! Si deve dedicare alla donna! È passione e sacrificio (nell’accezione di ‘renderlo sacro’, ndr). La prima notte dopo un parto io sono sempre rimasta lì, a fianco alla donna, per controllare che tutto andasse bene, anche se non stavo bene! Io l’ho proprio resa sacra, la professione (ride, ndr)».


Ci sono state situazioni nelle quali non si è trovata bene con delle colleghe ostetriche?


«In passato mai. Quando ero ancora condotta non è mai successo. C’era solidarietà tra me e le colleghe dell’ospedale, e stima. Anni dopo, invece, mi è capitato diverse volte di avere avuto brutti rapporti con colleghe più giovani. Mi hanno proprio buttato giù. Alcune sono proprio cattive. Anche alcune che son venute qua a farsi spiegare la professione ho notato che non facevano altro che sparlare delle colleghe. Ma che vergogna! Che mancanza di professionalità! Sono proprio cattive!».


Addirittura cattiveria? Ma le donne non sono “deboli”?


«Ma assolutamente no! Le donne sono molto più cattive degli uomini. Io capisco che tante ostetriche sono senza lavoro, ma trattarsi male tra colleghe non giova a nessuno e, primariamente, alla donna incinta! Non si prende mica il lavoro a comportarsi così, e i tanti medici che ho conosciuto non mi hanno mai raccontato nulla di questo genere, tra loro: eppure nella mia vita ne ho conosciuti tanti, basta leggere la mia storia sul libro (“Mamma 7400 volte” a cura di Sergio Sommacal, ndr). Invece tra donne c’è una gelosia e una cattiveria mostruosa!».


Lo capisco perché è successo anche a me (Rachele). E poi ho dovuto smettere di lavorare.


«Vede? È proprio così! E in passato non succedeva. C’era qualche carognetta (ride di gusto, ndr) in ospedale, ma poi, una volta diplomate e mandate sul campo son cambiate per forza e son dovute diventare umili!! Un’emorragia postparto in una circostanza di difficoltà, vedi come ti fa diventare umile se non vuoi che la donna muoia».


Cambiamo argomento, Maria. Le hanno mai chiesto di fare qualcosa contro la sua volontà, qualcosa che non voleva fare, in ostetricia?


«Ma no, in ospedale no. Solo un paio di volte mi è capitato un prolasso di funicolo (avviene quando il cordone fuoriesce prima del bambino ed è un’emergenza che mette in serio pericolo la sua vita, ndr) che il dottore voleva cesarizzare immediatamente. Ma io, mentre il dottore si preparava per l’intervento, sono riuscita a far partorire la donna rapidamente perché sentiva già di voler spingere! Così in una spinta forte è nato il bambino e io sono riuscita ad evitare il cesareo, che è sempre un intervento chirurgico. Quando è tornato il professore, il bambino era in braccio alla signora e lui è rimasto incantato (ride, ndr)! Ma aveva tanta fiducia in me! Non so quante ostetriche avrebbero coraggio di aiutare una donna in quel modo e già sdraiata in sala operatoria. Altre volte invece sono riuscita a portare all’ospedale delle donne che avevano il prolasso di funicolo e andavano subito cesarizzate: menomale che tutto è andato bene!


Poi mi è successo che quando arrivai come ostetrica condotta in un altro paese (ne ha cambiati alcuni, prima di stabilirsi dove abita da anni, ndr) arrivò un gruppo di donne che mi chiese se facevo aborti. Ma io mica le faccio quelle cose lì! Io sono per la vita! E quante donne ho aiutato perché non abortissero! Le ho convinte tutte e tutte erano contente, dopo: mi hanno poi sempre ringraziato! Quante, invece, mi sono venute a dire che avevano abortito. Quanto si sono pentite! Mi ricordo di una, tra tante, che mi disse che se lo sognava tutte le notti! Io le dissi di andare a confessarsi, ma di più, che potevo fare? Stava diventando matta, poverina!».


Sono tante le ostetriche che sono a favore dell’aborto poiché dicono che la donna deve essere libera di decidere del suo corpo. Ma la donna che abortisce è davvero libera?


«Ma no che la donna non è libera, perché poi le viene il rimorso. O presto, o tardi le viene il rimorso! Magari sono giovani e abortiscono, ma poi non rimangono più incinte! Perché spessissimo mi è successo di sentire la stessa storia. Sono giovani, vogliono far carriera, vogliono fare questo e quello, e di bambini non ne vogliono. Se rimangono incinte son capaci di andare ad abortire, e dopo, quando poi lo vogliono, non rimangono più incinte neppure con la gravidanza assistita (procreazione medicalmente assistita, ndr). Son donne distrutte. Distrutte e ingannate dall’idea di libertà! Mi è capitato di salvare la vita a una donna che aveva cercato di abortire il secondo figlio (quando la 194/78 non c’era, ndr). Mi venne a cercare il marito che mi disse che l’ostetrica le aveva messo una candeletta e l’aveva lasciata sola. Quando arrivai, la donna aveva quaranta di febbre ma non voleva che la toccassi perché temeva che le facessi tenere il bambino! Ma si può?! Tuo marito ha un lavoro e hai già un bambino: ma perché non ne vuoi un altro?».


Ma perché, erano le ostetriche che facevano l’aborto illegale?


«Alcune sì. Ma poche. C’erano delle donne che usavano i ferri da calza e facevano danni, se non uccidevano la donna!».


Si dice che la legge per l’aborto abbia cancellato l’aborto clandestino, ma è stato calcolato che, invece, ne avvengano ancora moltissimi…


«Ci credo, perché ci sono le donne che non vogliono farsi vedere che vanno ad abortire, poi ci sono casi disgraziati di poveracce che magari sono prostitute e le costringono».


Sono tante le giovani donne che abortiscono: soprattutto dai venti ai trent’anni. Come mai, secondo lei?


«Perché purtroppo pensano che un figlio non faccia far carriera o non le faccia realizzare. Qui nel mio paesino ce n’è una che ha fatto l’aborto tre volte in un anno!! E poi purtroppo non c’è più l’amore per il bambino. Non so perché… Purtroppo mi è capitato tante volte di parlare con dei ragazzini di quattordici, quindici anni che mi raccontavano che loro la mamma non ce l’hanno. Che la loro mamma s’interessa al lavoro e alle amiche, e quante donne adesso sono così… Uno di questi mi raccontò che lui non aveva mai sentito che la propria mamma gli volesse bene. Mi disse “La mia mamma non è una mamma. Anche quando ero piccolo e tornavo da scuola, non vedendo l’ora di vederla, le correvo incontro per abbracciarla, ma lei mi metteva davanti alla televisione e mi diceva che aveva i fatti suoi da fare” (sospira ed è visibilmente commossa, ndr). Questi ragazzini mi hanno raccontato di avere ricevuto tanti regali ma di sapere che una vera mamma non fa regali: sta col figlio!! Ma come si fa a non amare un figlio? I bambini hanno bisogno di essere amati! Quanto lo sentono, i bambini, se non sono amati. Purtroppo di bambini non se ne vedono più. Una volta era sempre una gioia, l’arrivo di un bambino. Anche se di pane ce n’era poco. Adesso c’è tanto pane, ma pochi bambini. Che egoismo».


Maria, lei ha visto le donne quando avevano un ruolo familiare chiaro e distinto in casa, e poi le ha viste, a partire dagli anni ’60, quando hanno cominciato a conquistarsi i loro spazi, quando si sono potute dedicare allo studio e alla carriera. E, dicono, alla loro libertà. Ma adesso, passati cinquant’anni da quella emancipazione, le donne sono libere?


«No!! Assolutamente no! Quando ci penso mi fa male lo stomaco! Quante donne abbandonano la famiglia per altri uomini! Quante famiglie distrutte! Alcune di queste hanno avuto pure il coraggio di lamentarsi con me del fatto che l’avevano fatto (lasciare marito e figli, ndr) perché non le era stato concesso di realizzarsi! Ma in cosa si devono realizzare? Un marito che magari non è perfetto, d’accordo: ma chi lo è? E i figli cosa c’entrano? Hanno bisogno della mamma!


Poi la pagano, queste donne, la libertà! La libertà ha reso le donne delle prepotenti! Credono di poter abbandonare i figli o di poter sfare una famiglia senza conseguenze, ma i figli non perdonano e le donne questo non lo capiscono. Quando poi i figli sono grandi, alcune si rendono conto del danno commesso, altre continuano a giustificarsi, ma son tutte scuse per non sentirsi in colpa… Ricordo specialmente due donne che si vennero a lamentare del fatto che i figli ormai grandi non le volessero più. Una mi disse che aveva il diritto di vedere il nipotino, il figlio gli aveva detto che non glielo proibiva, ma che con lei non voleva più avere nulla a che fare. Un’altra si permise di dire che si era realizzata per stare bene e che lo aveva fatto per i suoi figli. Io le risposi che il bene dei figli è avere una mamma che sta con loro e non disfa la famiglia! Gliel’ho sempre detto a tutte e alcune ci sono rimaste male: ma io ho il dovere di correggere gli errori o di farli notare, altrimenti sarei falsa! Io dico che le donne sono tutte matte: lasciare una famiglia, con dei figli che soffrono! Se il marito fosse cattivo, lo capirei. Ma alcune donne lasciano la famiglia così, per capriccio! Ma come si fa? (sospira a lungo, ndr)». Poiché è commossa, decido di cambiare discorso.


Nella sua esperienza si sarà fatta un’idea chiara di quando è il momento migliore per fare il primo figlio. Se potesse avere di fronte delle ragazze cosa direbbe loro?


«Massimo ventiquattro-venticinque anni. Magari a trenta se è il secondo. Ma non di più. Il corpo deve avere le energie, e a trentasette-quarant’anni non c’è assolutamente questa energia.


Inoltre a quell’età io vedo molta più patologia».


Parliamo di “violenza ostetrica”: cosa ne pensa? Ci sono donne che non hanno più voluto avere figli in seguito a parti assistiti in modo non etico: ne ha conosciute?


«Ce ne sono tante. Alcune le ho assistite a casa nelle gravidanze successive. Queste cose succedono perché tante ostetriche s’inventano un modo tutto loro di assistere, mentre una volta veniva insegnato un modo solo e, soprattutto dico io, perché alle ostetriche non viene insegnata l’educazione. Ma come si fa a far soffrire una donna? A farla piangere? E quante ostetriche odiano sentire che la donna si lamenta! Certo che l’ostetrica deve essere buona, accogliente ed empatica con la donna, e talvolta guidarla con decisione. Ma guidarla non vuol dire urlarle in faccia! Quanti brutti racconti ho sentito io… e che vergogna ho provato ad ascoltarli. C’è un’incompetenza mostruosa perché fan tanti corsi dopo la scuola (adesso è l’Università, ndr), ma non hanno un grammo di umiltà. Io penso che ci sono ostetriche che credono che la professione debba far felici loro, le debba realizzare: ma l’ostetricia è una missione! Siamo lì per la mamma e il bambino, mica per noi stesse! È un servizio che rendiamo… Invece tante ostetriche non s’immedesimano nella donna, sono fredde. Tante ostetriche, una volta in pensione, non hanno mai più voluto aiutare le donne… a me invece è tanto dispiaciuto dire “basta” con la professione!».


Parliamo un po’ delle donne: come le vede? Come stanno le donne?


«Le donne sono sole! Viene dato loro il bambino appena nato anche dopo un cesareo e se la devono sbrigare da sole. Anche in ospedale. Io non sopporto di pensare a tutti i parenti intorno a un neonato e alla donna stremata: non c’è cura, non c’è protezione nei confronti del bambino e della stanchezza della donna. Una volta la donna era più aiutata. Le vicine di casa, le parenti. Adesso ognuno fa la sua vita e nessuno fa più niente per queste donne che si trovano da sole con questi bambini che urlano. Viene detto loro di allattare costantemente: ma se una è sola e senza aiuti? E se l’allattamento è complicato? Mica tutte le donne riescono a farlo da subito con serenità! Ecco perché io credo che tante donne debbano avere aiuto a casa da parte di altre donne come quelle che conosco io (Maria veniva chiamata a tenere un discorso sulla maternità presso alcune associazioni che formano doule, delle assistenti delle ostetriche che si occupano di affiancare la donna nei primi momenti dopo la nascita dei bambini, ndr) e come avveniva un tempo. Certo che poi ci sono donne che fanno del male al bambino! Ne ho conosciute alcune depresse che ho aiutato, ma avrebbero avuto bisogno di parenti e di sostegno di altre donne… invece ora si va di fretta: le donne vengono dimesse dall’ospedale stanche ancora dal parto e senza aiuti. Certo che poi non allattano! Come si fa ad allattare se una è stanca?».


Decido di raccontarle che adesso, la nuova moda, è l’utero in affitto: «Maria ma lo sa che adesso le donne affittano l’utero?»


«Ma sono tutti pazzi! I bambini devono stare con la mamma! Scusi sa, ma io queste cose non le capisco e non le accetto. Che poi le pagheranno queste cose… Le pagheremo tutti perché la società si riempirà di gente che da bambina ha sofferto la mancanza della mamma. O del papà. Perché poi anche il papà è importante, soprattutto per i maschi. Come fa un bambino a essere un buon uomo, se non impara con l’esempio?».


Maria Pollacci ha 94 anni, settantatré dei quali passati a fianco alle donne, aiutandole a diventare madri senza mai sostituirsi a loro, senza decidere per loro. Umile e caparbia. Dolce ma capace di offrire fermezza, sicurezza. Maria è un’ostetrica.



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