Intervista a Rosaria Redaelli, ostetrica

Cara Rosaria, iniziamo con qualcosa di te: da quant’è che sei ostetrica e perché hai scelto di diventarlo?


Sono ostetrica dal 1982. Ho scelto questa professione influenzata da mia madre che seguiva l’ostetrica di paese nei suoi parti a domicilio. A volte c’era un neonato a casa perché mia madre lo accudiva per
consentire alla puerpera di riposare.

Che evoluzione ha avuto la tua carriera?

Ho iniziato con la carriera infermieristica dopo il diploma all’istituto magistrale. Era possibile accedere alla scuola per ostetriche, previo esame di ammissione, attraverso due strade: due anni di frequenza alla facoltà di Medicina o dopo il diploma infermieristico. Ho scelto la seconda strada poiché mi interessava il contatto diretto con il mondo assistenziale. Desideravo incontrare l’umanità nel suo bisogno di salute. Ho lavorato in un reparto di oncologia ginecologica per due anni, mentre frequentavo la scuola di ostetricia. Dovevo guadagnare poiché a casa non potevo gravare sulla famiglia. Sono approdata alla nascita dopo una intensa e bellissima esperienza di accompagnamento all’altra vita. Ho imparato a stare
con la vita passando dalla morte. Ho avuto un primario illuminato che mi ha proposto di seguirlo presso l’ospedale di Monza insieme a un gruppo di colleghe per rifondare l’ostetricia delle ostetriche, trasformando il sapere medico nel sapere delle ostetriche nel percorso fisiologico della maternità. Sono stati anni entusiasmanti di sacrificio, studio, viaggi formativi all’estero, ma di grande soddisfazione professionale e umana. Le ostetriche erano responsabili di tutto il percorso nascita dagli ambulatori, alla sala parto, puerperio, assistenza domiciliare nel post partum e avevano un ruolo di collaborazione attiva in patologia della gravidanza. Erano anni nei quali la nostra figura professionale non aveva più un’identità specifica: era subordinata alla figura medica. Erano tempi di grande medicalizzazione del percorso nascita. L’esperienza delle ostetriche di Monza era fuori dal “coro”, rispetto all’orizzonte ostetrico – ginecologico italiano. Spesso nei congressi a cui partecipavamo con relazioni che rispecchiavano i nostri dati, eravamo insultate e tacciate di fare un’ostetricia rischiosa per la salute delle donne. I nostri dati avvaloravano l’ipotesi che mantenere la fisiologia senza interventismi migliorava l’esperienza della nascita, riducendo il tasso di tagli cesarei, di parti operativi, di morbosità materna e neonatale. Sono stata a Monza per circa 20 anni. Avevo una posizione di autonomia, gestivo un ambulatorio di gravidanza fisiologica e di Regolazione Naturale di Fertilità secondo il metodo sintotermico Camen. Tuttavia mi sentivo inquieta. Avevo bisogno di esportare un metodo di cura e care che avevo contribuito a costruire. Ho aderito alla proposta di essere capo-ostetrica presso l’Ospedale San Giuseppe di Milano: desideravo trasmettere alle colleghe la bellezza e la soddisfazione di “stare” con la nascita esercitando fino infondo la professione. Desideravo testimoniare la passione per la vita a partire da un fondamento antropologico cristiano il cui significato ultimo è coinvolgere tutti i fattori costitutivi della natura umana. Ho seminato in questo terreno impervio per tre anni, ho lavorato duramente nella formazione  delle colleghe, poi ho scelto la strada del territorio. Avevo ancora qualcosa
in sospeso: è nata in me l’intuizione che non era adeguato trasferire il domicilio in ospedale (in fondo io lavoravo per l’umanizzazione delle cure in nosocomio) ma era proprio l’opposto . Bisognava creare le condizioni per riportare sul territorio e a domicilio la fisiologia della nascita, perché l’ospedale è il luogo dove si va quando si perde la salute. La maternità è uno stato di benessere, un evento di trasformazione non di rischio. Sono diventata ostetrica di comunità in una realtà consultoriale cattolica che ho contribuito a sviluppare. Non ho avuto le condizioni per assistere parti domiciliari ma ho lavorato alacremente per garantire assistenza domiciliare precocizzando le dimissioni post-partum. Nel consultorio ho riportato la figura ostetrica al suo ruolo professionale in piena autonomia: dal concepimento alla nascita, dall’adolescenza alla menopausa, dall’accompagnamento nel fidanzamento, al sostegno della famiglia. Il consultorio è un luogo di aggregazione, di accoglienza, uno spazio di educazione e riabilitazione , di festa, di assistenza e cura . Ho creato le condizioni per ampliare l’attività e offrire lavoro a giovani ostetriche interessate all’attività extraospedaliera. Sono stati anni nei quali, forte dell’esperienza ostetrica acquisita in tutti gli anni di attività, ho organizzato con alcune colleghe congressi, seminari, corsi di aggiornamento. Tutt’ora lavoro molto nel settore scolastico con l’insegnamento della materia affettivo-sessuale poiché ritengo che l’urgenza educativa sia proprio a questo livello esistenziale degli esseri umani negli anni di costruzione della loro identità.

Da quant’è che insegni alle ostetriche?

Sono stata coinvolta per svolgere la docenza universitaria gli anni in cui è sorta la facoltà di scienze infermieristiche e ostetriche presso l’Università Monza Bicocca. La mia collaborazione inizia dal 2001 e continua tutt’ora. Insegno fertilità femminile, procreazione e pianificazione familiare. Fa parte della formazione delle ostetriche conoscere le dinamiche della fertilità, della sessualità femminile e della coppia. Ho elaborato una metodologia esperienziale che coinvolge le studenti direttamente. Nell’esordio delle mie lezioni invito le studenti a conoscere la loro fertilità raccogliendo i dati di muco, temperatura, palpazione cervicale allo scopo di redigere la loro scheda ed individuare la fasicità del loro ciclo, che diviene materia di esame. Eseguo una vera e propria consulenza perché desidero appassionare le mie allieve all’argomento. Ritengo che l’impatto diretto con loro stesse sia fondamentale per comprendere il significato dello studio della fertilità come competenza professionale. La conoscenza della fertilità è un requisito sostanziale della nostra formazione per non cadere nell’equivoco drammatico che riduce il campo dell’arte ostetrica alla mera tecnologia della riproduzione. Affronto le basi antropologiche e scientifiche della sessualità e della regolazione della fertilità dal concepimento alla menopausa. Trasmetto gli strumenti di interpretazione di una scheda di raccolta dati per individuare le fasi del ciclo. Gli obiettivi del corso nella lettura della scheda che devono essere raggiunti dalle studenti sono i seguenti: conoscenza e applicazione dei criteri di interpretazione del ciclo, diagnosi ovulatoria, individuazione del periodo fertile, individuazione della regolarità della fase luteale, diagnosi differenziale di gravidanza iniziale e irregolarità mestruale, diagnosi di cicli anovulatori, valutazione di muco versus perdita vaginale, conoscenza e applicazione dei criteri di inclusione dell’infertilità indotta dall’allattamento al seno (L.A.M.), conoscenza dei segni di ripresa della fertilità post-partum. Direi che le studenti sono entusiaste delle informazioni che ricevono, stupite della meraviglia della loro corporeità. Molte di loro sospendono l’assunzione dei contraccettivi  poiché scoprono un modo nuovo di concepirsi. Il primo cambiamento avviene sempre dentro le persone .


Come si è evoluta la cultura ostetrica trasmessa dalla scuola prima e
dall’università dopo?

E’ una domandamolto complessa e poliedrica . Non vorrei ridurne la complessità. Penso che il tipo di formazione della scuola fosse improntata su uno stampo di tipo medico. Non dimentichiamo il contesto nel quale si stava evolvendo la figura ostetrica. Negli anni ’70 / ’80 l’ostetrica svolgeva il suo lavoro prioritariamente nell’ospedale perdendo la sua identità e spesso la sua autonomia. Le ostetriche condotte erano ridotte a poche decine. La scuola era improntata sul modello assistenziale del parto. Il luogo principale occupato era la sala parto. L’assistenza al parto era insegnata in modo tecnico e strumentale. Fondamentale era l’interpretazione del monitoraggio cardiotocografico, non solo per la
valutazione del battito ma la diagnosi di travaglio attraverso il tocografo. Non c’era una vera cultura ostetrica della nascita che poteva opporsi con il suo sapere all’invasività della medicalizzazione. Le ostetriche italiane erano buonissime e umanissime “imprenditrici delle nascita” senza aver mai sviluppato però un impianto teorico del loro sapere, senza aver mai posto i fondamenti culturali della fisiologia della nascita. La loro arte non è mai divenuta metodologia e modello della loro autonomia professionale. In Italia siamo sempre state una categoria gelosa della propria competenza , individualista nel lavoro. Difficile trovare una collega anziana che trasmettesse i suoi segreti. C’era ritrosia nella formazione permanente, scarsa partecipazione ai congressi. I collegi organizzavano assemblee annuali (spesso sponsorizzate da case farmaceutiche) e rari eventi formativi. La cultura era medica, la manualità ostetrica. Le scuole esportavano una figura il cui il ruolo si svolgeva in sala parto ma non responsabile del parto, in grado di svolgere prestazioni assistenziali subordinate al medico, con scarse conoscenze in merito all’allattamento. Era una figura arricchita di nozioni scientifiche inerenti la patologia ma totalmente scollate dalla realtà. Negli anni successivi, direi con la mia generazione, è sorto il desiderio di riappropriazione di un ruolo che ci apparteneva non solo nelle sale parto ma in tutto l’orizzonte femminile e materno-infantile. Il mondo accademico lentamente si è popolato di nuovi “vertici” che hanno ampliato il nostro orizzonte professionale. La Confederazione (attualmente mutata il Ordine, ndr) ha acquisito uno spazio politico e maggior valore istituzionale. In molti atenei ora le ostetriche insegnano in Università. Credo che la produzione culturale internazionale, gli studi, le pubblicazioni e la ricerca contribuiscano a fondare finalmente un sapere delle ostetriche. Molto ancora c’è da lavorare nel mondo accademico. Credo che la carriera delle ostetriche sia blindata: in Italia abbiamo poche ostetriche con il titolo di ricercatrici e pochissime con il titolo di professori. La figura dell’ostetrica che si laurea nei nostri anni è addestrata per lavorare nei settori materno infantili, ha ampliato le sue competenze in ambiti come la P.M.A., la chirurgia ginecologica, la diagnostica prenatale ecc., ma corre lo stesso il rischio di diventare una “tecnica della riproduzione”. Le nuove ostetriche si devono inventare un lavoro perché c’è una carenza occupazionale preoccupante. Questo è positivo perché attiva in loro una bella creatività e l’opportunità preziosa di responsabilizzazione. Non credo sia solo un rischio legato alla figura ostetrica ma una realtà generazionale e di contesto storico. Siamo in una realtà legata al “pensiero unico”, ai rapporti umani liquidi , alle relazioni con temporizzatore, alla visione dell’esistenza improntata sull’emotivismo o sul razionalismo. Siamo in crisi identitaria sessuale. In tale contesto credo che la nostra professione abbia una grande opportunità di riflessione sulla natura umana, sull’origine della vita, sulle evidenze ed esigenze dell’Io, sulla struttura bisognosa della persona. Credo sia carente nell’organizzazione della Laurea in Ostetricia della maggior parte degli atenei italiani, il numero delle ostetriche che insegnano e il numero delle ore dedicate alla componente del pensiero sull’umano: intendo lo sviluppo delle componenti esistenziali, antropologiche, affettivo - psicologiche, pedagogiche connesse intimamente con la natura biologica umana.

In questi quarant’anni, come si è evoluta la figura delle ostetriche?

Negli ultimi 40 anni abbiamo avuto un’evoluzione interessante. Credo che attualmente abbiamo le potenzialità e la maturità per fondare culturalmente la professione. Credo che la finalità del nostro ruolo
professionale sia occupare tutti gli spazi legati alle problematiche ginecologiche, gli ambiti femminili preconcezionali, adolescienziali , gestazionali, menopausale e materno-neonatali –infantili, educativi. Il rischio che vedo è di tipo regressivo soprattutto negli ospedali cioè la perdita “del prendersi cura” della persona nei suoi fattori costitutivi con tutti gli strumenti dell’arte che abbiamo sviluppato, l’eccessiva settorializzazione della maternità, l’incapacità di accoglienza del dolore del travaglio per l’avvento dell’epidurale, la superficializzazione delle competenze , l’attenersi a rigide applicazioni di un codice comportamentale.


E le donne, cosa sanno delle ostetriche?

Ci sono differenze legate alle regioni italiane. Posso affermare che, dal mio osservatorio di Milano, molte sono le donne stupite di fronte a noi ostetriche consultoriali di comunità. Quando ci incontrano scoprono un mondo di accoglienza umana e professionale. Ci domandano “Siete finte o siete vere?” Io
spero che accada sempre di più in tutta Italia e in tutto il mondo.


La tua carriera ostetrica è iniziata affiancando le “madri di Seveso” spaventate dal fatto che i figli (poi risultati sani), potessero essere malati: come vivesti quei momenti? Cosa vedesti in quelle donne?

L’introduzione della 194 ha fatto breccia proprio con la diossina. Io abito vicino a Seveso. Ricordo che c’erano femministe che raggiungevano Seveso e mostravano la foto di bambini malformati per convincere le madri ad abortire. Il via all’I.V.G. fu data dal professor Candiani presso la Clinica Mangiagalli, luogo della mia formazione. In una conversazione prima della sua morte affermò di essersi pentito amaramente del suo consenso. Non se lo perdonò mai. Tutti i feti analizzati  erano perfetti. Io ho vissuto il dolore, ho testimoniato la vita, ho lottato per la sua difesa, ho rischiato a volte la mia incolumità. Allora si era minacciati come obbiettori di coscienza. Non ero sola, con me c’erano amici – colleghi. Ho visto smarrimento nelle donne, spavento . Poche erano determinate, alcune hanno ”approfittato” per liberarsi della creatura. Molte hanno vissuto il rimorso e tutt’ora vivono il senso di colpa. Io rischiavo di ”lavarmi” in sala operatoria per assistere un’IVG, ignara della vera causa della revisione uterina. Grazie a Dio ho sempre rifiutato di assistere prima di aver letto la cartella clinica. Occultavano le cartelle cliniche per mandare avanti “la macchina organizzativa”.


Cosa significa, oggi come oggi, stare a fianco di una donna che porta in grembo un figlio con una diagnosi infausta? È verosimile affermare, come fanno molti operatori sanitari, che da quando la diagnosi è fatta, è meglio – per la donna – eliminare il bambino perché potrebbe soffrire maggiormente se portasse avanti la gravidanza? Il professor Noia, nell’intervista che mi ha recentemente rilasciato, ha affermato che la donna che decide di non interrompere la gravidanza, in questi casi, viene accusata
d’incoscienza: hai potuto constatarlo anche tu? Come vivono queste situazioni le donne? Come si comportano le ostetriche?

Siamo in una realtà eugenetica. La perdita dei valori cristiani è all’origine della perdita dell’Io. L’Io si perde, si è infragilito. Di fronte a una vita imperfetta si pensa che la NATURA abbia avuto una svista,  quindi l’unica soluzione è “la soluzione finale”. La paternità è sempre più un’ipotesi, vissuta in modo teorico, priva di virilità, coraggio, capacità di protezione e sostegno. Dico questo perché all’origine del rifiuto di una vita malata nel grembo materno c’è spesso la solitudine e l’isolamento. Molto spesso anche le madri eroiche che scelgono di portare dentro il figlio finchè il suo destino si compie, che “stanno lì” come la Madonna sotto la Croce, che bevono tutto il calice amaro delle lacrime, sono sole. Hanno un compagno smarrito che non è padre e nemmeno sposo. E’ solo il loro accompagnatore. So di essere radicale. Le mie affermazioni hanno tutto il carico della consapevolezza di sacrificio che comporta “stare” con un figlio malformato e tutta la Misericordia di Dio, di cui ogni essere umano è oggetto. C’è una pressione forte del mondo che entra violentemente nella relazione di una madre e suo
figlio. Molte volte sono gli stessi nonni che esprimono sentenze disumane. Posso dire che le ostetriche subiscono le stesse influenze mortifere della mentalità dominante. In molte circostanze mi è successo di accompagnare le madri di figli malformati in gravidanza e nel parto e credo di avere fra i ricordi più commoventi proprio i volti di quelle creature speciali. Una madre che partorì una bimba anencefala, la guardò con una tenerezza somma poi rivolgendosi a me disse” è bellissima la mia bambina, vero?”… “Il bello è lo splendore del vero”: Platone non pensava a queste creature speciali certamente. Se leggiamo cristianamente la frase ne valorizziamo tutta la ricchezza.


La fertility awereness (consapevolezza sulla fertilità) è un mezzo attraverso il quale le donne (dalla più giovane età) vengono edotte sul funzionamento del proprio ciclo uterino: pare infatti che l’empowerment -molto pubblicizzato dalle colleghe ostetriche- si identifichi chiaramente con la definizione di fertility awereness che, tuttavia, non viene assolutamente presa in considerazione perché si rifà completamente a tutti i metodi naturali di regolazione della fertilità. Come mai questa limitazione?

La fertilità non è sganciata dalla persona. Nella persona la fertilità sta dentro la sessualità. Nella femmina la femminilità sta dentro tutto. Nel maschio la mascolinità sta dentro tutto. La limitazione sta dentro la settorializzazione del femminile, scambiando la consapevolezza con il controllo sulla fertilità. In tal modo si esercita una prima riduzione: la fertilità è la conoscenza della ciclicità. Una seconda riduzione è considerare la fertilità senza la sua ipotesi procreativa o solo nella sua ipotesi unitiva, agendo relazioni coitali finalizzate o non finalizzate al concepimento. In altri termini, nel coito, ovunque si posizioni nelle fasi del ciclo, non si scinde mai la dimensione procreativa dalla dimensione unitiva. C’è una trascendenza che unisce le due dimensioni. Una coppia che fa l’amore costruisce la sua
relazione in uno spazio di unità, altro da sé. “Non più io, non più tu, ma NOI”: è lo spazio del Noi. Credo che questo sia sempre il frutto della relazione sessuale: lo spazio del noi. Lo spazio del NOI trascende quell’io e quel tu. Se la consapevolezza femminile della fertilità sta dentro l’orizzonte della sessualità, la conoscenza della ritmicità biologica diventa un’avventura esplorativa ricca di scoperte, di
incognite. La suggestione di tale avventura della consapevolezza è l’incontro con la dimensione di mistero, che genera un’attrattiva profonda per la conoscenza di sé come persona, nella totalità dei suoi fattori costitutivi. In altri termini essere consapevoli della ciclicità biologica femminile non è un approdo ma una riva da cui partire per il mare aperto. I metodi tecnologici di controllo della fertilità stanno esattamente al di fuori la persona. Certo non intendo dire che sono sul piano della contraccezione, ma hanno il rischio maggiore di limitare la conoscenza della fertilità all’uso di criteri interpretativi per avere il controllo sui potenziali concepimenti. Non intendo neppure dare meno importanza all’efficacia della regolazione naturale della fertilità, fondamentale per la sua diffusione. Se le colleghe ostetriche pubblicizzano fertility awereness mi sembra già positivo come punto di partenza.


Tu insegni alle studentesse di ostetricia proprio la consapevolezza sulla fertilità: cosa hai scoperto in questi anni d’insegnamento?

Ho scoperto nelle giovani studenti il desiderio di ampliare non solo le loro nozioni scientifiche ma che hanno sete di conoscenza di sé. L’affronto di argomenti che riguardano la sessualità suscita riflessioni profonde sulla vita ed il suo significato, sulle relazioni ed il loro senso.

Hai scritto diversi testi: uno sul LAM (metodi dell’amenorrea da lattazione) e uno di educazione affettiva: che approccio trasmetti e che messaggio vuoi mandare a chi legge i tuoi libri (il primo magari più interessante per le donne, il secondo per entrambi i genitori)?

Sono due testi differenti. Il testo su “Allattamento e fertilità” è un piccolo manuale che ha come finalità promuovere l’allattamento alla luce della ripresa della sessualità dopo il parto. Si espone l’allattamento al seno in tutte le sue fasi evolutive dalla sua implementazione alla sua sospensione; si danno consigli sulle buone pratiche e soluzioni nel caso di problematiche e difficoltà. Si tratta la fertilità in allattamento secondo regolazione naturale del metodo sintotermico Camen per agire rapporti sessuali dopo la nascita di un figlio\a, la cui ripresa è fondamentale perché la coppia di sposi si ritrovi con maggior intensità amorosa. Il messaggio che vorrei trasmettere con questo testo è l’importanza della
sessualità come canale di comunicazione amorosa della coppia dopo una nascita.
Il testo di educazione affettivo sessuale riguarda l’avventura del concepimento e la costruzione dell’identità sessuale. La prima evidenza è la nostra vita. E’ miracoloso esserCI.

L’avventura del piccolo Zu , lo spermatozoo, è molto pericolosa. Quando parte dal suo continente freddo , il regno dei due  testicoli, non sa di essere stato eletto per il compimento della missione. Deve
raggiungere una meta…

E’ una favola divertente che racconto da molti anni nella scuola primaria con tutti i riferimenti scientifici dell’anatomia maschile e femminile. (Senza divertimento non c’è apprendimento).
E’ ben illustrata e contiene una bellissima mappa del viaggio. Si può leggere con i bambini o far leggere ai bambini. Si personalizza quando si giunge all’ultima pagina. E’ per tutti da 0 a 99 anni.
Io consiglio di leggerla insieme al di sotto dei 9 anni e interpretarla come a teatro. Ho scelto di stampare io il testo con la mia illustratrice.

Sei anche autrice di alcuni dolcissimi racconti: “Teodora” (una favola di una figlia che perde la madre), “Margherita” (ispirata alla vita della piccola Margherita gemellina anencefala), “Alma” (ispirata da tutti i piccoli che tornano al cielo prima di toccare la terra” in cui parli delle morti che avvengono nel periodo perinatale) e “Ciro” (ispirata dai bambini ai quali fai educazione affettiva): sperando vivamente – io che li ho letti – che qualche editore sia interessato, ti chiedo se ce n’è qualcuno che più ti è piaciuto scrivere e ti ha commosso, e come possono, i nostri lettori, leggere anch’essi queste bellissime favole.

Sono legata a tutte le favole per l’intensità delle circostanze che le hanno ispirate . Ti direi che ho una
preferenza per Margherita. Ho chiesto proprio alla piccola Margherita di inviarmi la sua storia e un giorno è arrivata. Margherita è molto presente nella mia vita e spesso la invoco nel bisogno. Margherita è stata illustrata ed è pronta per essere pubblicata .Io spero di trovare un editore prima o poi. Fra i nostri lettori ci sarà un editore interessato? Lo spero tanto , così potranno essere lette. Grazie per l’intervista.

10/03/2020 La Croce Quotidiano

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