domenica 22 agosto 2021

Una vita in più (sul rispetto alle madri e ai padri)

Io c’entro poco in questa storia. Oserei dire nulla. Quello che però Nostro Signore realizza, è incrociare le strade della vita delle persone, in modo che solo Lui può sapere che ne può venire qualcosa di buono. Ho lasciato la penna a Claudia perché tendo a riconoscere che la sua esperienza debba essere diffusa con parole sue. Io trarrò delle conclusioni, a questa storia assurda, perché è doveroso che io mi ponga non solo come mezzo, ma anche come fonte per comprendere meglio alcuni punti che potrebbero non essere chiari.



«Mi chiamo Claudia, ho quarant’anni, tutti vissuti e apprezzati con amore. Ho incontrato l’amore della mia vita, Piero, piuttosto tardi e, sebbene abbia avuto la benedizione di un uomo meraviglioso, il desiderio forte di entrambi noi di creare una famiglia non è ancora stato esaudito. Oggi, dopo le ultime esperienze, non mi sento più di affrontare altre sfide. Eppure, il desiderio di un figlio è l’unico che abbia portato sempre nel cuore. Da sempre. Non ho mai desiderato nulla nella vita quanto desidero un figlio. Ora mi dico che forse per noi c’è un altro disegno, un altro piano.

Io e mio marito siamo portatori sani di fibrosi cistica. Entrambi. Stesso ceppo. Come fossimo gemelli. Nel 2017, consigliati da famigliari, ci rivolgemmo alla clinica Mangiagalli. Esami. Consulti. Altri esami.

Ci dissero che, come coppia, potevamo accedere alla procreazione assistita: potevano prendere il frutto dei nostri lombi, prelevarlo, analizzarlo, mixarlo, e qualora il cocktail fosse venuto bene, provare con il trasferimento dentro il mio utero. Sembra buffo? Non lo è. A quei tempi mi fidavo molto della scienza e della medicina. Avevo una vocina dentro me che diceva: “Claudia, ti ricordi quando avevi vent’anni e ti dicevi che, se la natura non ti fosse stata amica, avresti adottato un bambino?” Eh…e poi però c’era anche quest’altra vocina che mi diceva: “Vero. È pur vero che, se la scienza ha fatto così tanti progressi e ti può aiutare nel tuo sogno, dovresti provare”. Così il mio compagno e io decidemmo di provare. Due tentativi. Uno nel 2017, uno nel 2018, a distanza di pochi mesi. Visite. Ormoni. Punture. Visite.

Raccogli, testa, mixa. Il cocktail la prima volta riesce. Entriamo nella sala del transfert, felici: siamo a metà strada, ce la faremo! C’è la biologa che ci accoglie, sorride, e ci dice che di lì a poco mi inserirà l’embrione che “lei ha creato”! Sento il primo brivido…ma come? Un essere umano che lei ha creato? Non io, non lui, non NOI, la coppia. Ma la biologa. L’ho scritto, che non era buffo.

L’embrioncino non attecchisce. Lo dicono le beta, ma io lo sapevo già. Non ci scoraggiamo e io cerco di togliermi il pensiero della biologa che “crea” nostro figlio. Il secondo tentativo ‘non parte’; nonostante la stimolazione ovarica fosse più tosta della prima, il mio corpo si mette in sciopero. Forse non vuole collaborare. Vado a parlare da sola con la dottoressa, le chiedo se per caso non dipende dal fatto che da poco sono diventata vegana e le dico che, se proprio devo, una bistecca ogni tanto me la mangio. Mi assicura che no, anzi, ho più antiossidanti. Mi dice però che non produco molti ovuli. L’età. Ma c’è una “fantastica opzione”, e cioè la fecondazione eterologa. Le chiedo di spiegarmi bene, e mi sento dire che nel nostro caso dovremmo prendere un ovulo di un’altra donna (in Italia li compriamo dalla Spagna. Sì, li compriamo), mixarlo con il frutto del mio compagno, analizzarlo, mixarlo. Inserirlo. Successo nel 50% dei casi.

Quel giorno ringraziai e uscii dallo studio. Me lo ricordo, ero in moto quel giorno: piansi tutte le lacrime che avevo, prima di rimettermi in viaggio e andare al lavoro. Io e il mio compagno decidemmo di prenderci una pausa e ci facemmo un bellissimo viaggio in America. Era agosto 2018.

11 settembre 2018, il mio 11 di settembre. Un incidente. La vita è un soffio. La mia viene miracolosamente salvata. Mi resta una gamba tagliata sopra il ginocchio e una volontà di vivere che ho sempre sentito ma che ora ruggisce. Mi “rimetto in piede”, dato che ne ho uno. Mi alleno, mi applico. Dopo quattro mesi cammino con la protesi. Cerco di eliminare tutti i farmaci, compresa la morfina e le quattro crisi di astinenza per eliminarla. Lavoro su di me, sulla mia vita. Non voglio essere sconfitta.

Siamo a giugno. Io e il mio compagno ci sposeremo a settembre successivo. È stato difficile tornare a fare l’amore: il mio corpo è cambiato, io mi vergogno: non ho più le belle gambe lunghe e forti di prima. Ma io e lui ci amiamo davvero, superiamo tutto. Io mi sento amata come prima e dopo poco tempo rimango incinta. Già. Naturalmente: lo abbiamo fatto noi, perché ora sappiamo che ogni istante di ogni vita è preziosa e noi non siamo nessuno per fermare o controllare questo processo.

Andiamo insieme, emozionati, alla prima visita. Un dottore molto bravo, mi dicono. Piero resta nella stanza, è lì vicino a me. Ecografia. Sentiamo il cuoricino, sembra un treno. Piangiamo di gioia. Siamo felici. Il bravo dottore mi dice che devo fare la villocentesi. Gli rispondo che no, grazie, noi abbiamo deciso insieme di tenerlo comunque e che ci siamo informati sulla villocentesi e, valutando rischi e benefici, abbiamo deciso di non farla. Il bravo dottore non è contento della risposta: “Eh no - ci dice - la villocentesi va fatta. Anche solo per sapere dove partorire”. Mi chiedo perché insista così tanto sul farmi fare un esame invasivo e per nulla certo nei risultati. Ma io non mollo: “Senta, bravo dottore, io non la faccio, si metta l’animo in pace.”

Ma la villocentesi non serve, perché il cuoricino smette di battere e si è stacca da me dopo soli due giorni. Siamo due esseri umani con due tentativi falliti di procreazione assistita a causa della fibrosi cistica, un incidente quasi mortale che mi lascia senza una gamba, un aborto spontaneo nel primo momento felice della nostra vita dopo l’incidente. Beh, crolliamo un pochino. Ma noi siamo forti, io mi sento una guerriera amazzone (con una gamba ma sempre amazzone) e a breve ci sposeremo e ci riproveremo.

Marzo 2020. Scoppia quello che mi sono riproposta di non definire in questo spazio. Spengo la tv dopo 5 giorni. Inizio a fare 2+2 e inizio a capire. Faccio rete. Creo legami. Conosco un gruppo di donne fantastiche che oggi sono la mia famiglia. Ho di nuovo fiducia in me e negli esseri umani. Conosco un omeopata tramite una di queste donne meravigliose. La prima cosa che mi dice è: “Si, è vero che se sei vegana hai più antiossidanti, e puoi anche rimanere vegana per tutta la vita. Ma tu vuoi un figlio. Ora dimmi: gli ormoni da dove li prendi?”

Detto fatto: ricomincio a mangiare pesce e uova. Due mesi. Test positivo. Io e mio marito al settimo cielo. Questa è la volta buona. Non può andarci male ancora. Non è possibile. Abbiamo sofferto già troppo. Me lo ricordo: eravamo certi, spavaldi, sereni. Non poteva più succedere qualcosa di brutto.

Andiamo a Niguarda da una mia amica ostetrica conosciuta durante la degenza in quell’ospedale dopo l’incidente. Entro con Piero. Non si può, ma io sono disabile quindi si può. Entriamo, ridiamo, chiediamo delle nostre vite, si ride, si scherza. Poi la visita: il cuore non c’è. Ha smesso di battere due settimane prima. La vita è un soffio. Lei ci dice che è normale, è l’età, basta riprovarci. Mi dice che ci sono due strade: posso aspettare che avvenga naturalmente o posso farmi togliere tutto subito. Il cuoricino ha smesso di battere alla nona settimana. Siamo all’undicesima.

Mi dice che c’è da fare il tampone Covid in reparto per il ricovero. Mi scatta qualcosa: non posso farlo. Le dico che no, non accetto di farlo. Lei mi chiede il motivo e io le dico che non posso pensare a nessun oggetto che mi penetri nel naso in profondità. Non riesco. Non voglio. Ho paura. Mi dice che non c’è nulla da temere e io le ribadisco che no, non posso farlo, davvero. Mi dice di aspettare, vede, prova, chiede. Mi manda, al pronto soccorso ostetrico. In sala d’attesa c’è mio marito che mi sostiene. Sono sulla sedia a rotelle perché lì c’è molto da camminare e io non sapevo se me la sarei sentita. Abbiamo pianto tutte le nostre lacrime. Siamo distrutti. Aspettiamo quattro ore in sala d’attesa. C’è una ragazza al nono mese seduta per terra perché per quattro ore non fanno entrare nessuno: la sanificazione. Era il tredici novembre 2020 e il Niguarda era covid-free. Così mi disse l’ostetrica e così appurammo io e mio marito passando dal pronto soccorso (devo avere ancora i video).

Dopo 4 ore mi fanno entrare, mi dicono che devo fare il tampone. “Non posso” rispondo. Provano a convincermi. Non so cosa scatta in me: mi appello alla costituzione, al giuramento di Ippocrate, al trattato di Oviedo. Alla fine il Professor Mario Giuseppe Meroni, primario di ostetricia a Niguarda, mi caccia”dal pronto soccorso, assumendosi tutte le responsabilità del caso. Mio marito mi riporta a casa, aspetto due settimane, non prendo nulla. Vado a fare una visita in clinica privata. Devono applicare i protocolli. Niguarda e cliniche private a Bergamo non mi guardano in faccia. C’è il protocollo.

Dopo due settimane e qualche giorno vengono due amiche a trovarmi. Della mia famiglia nessuna traccia. Quando arrivano inizio ad avere dolori. Dolori forti, sempre più ravvicinati. Mi aiutano a togliere la protesi. Io mi piego, comincio a urlare, non capiscono. Io non capisco. Chiamano Piero che esce dal lavoro e corre a casa. Piero mi trova raggomitolata per terra. Non riesco a stare sulla sedia a rotelle, devo solo stare piegata: non capisco cosa sono questi dolori. Forse sto morendo. Piero mi aiuta ad alzarmi, vuole portarmi in ospedale, ma io sono stata cacciata dall’ospedale. Non ci voglio andare. Voglio stare qui. Lui insiste. Io insisto. Devo fare cacca. Aiutami. Mi aiuta a mettermi sul water. Impreco, piango. Urlo. Urla che si sentono fino al cielo. Sento solo che devo spingere. Spingo. Urlo. Grido: “Che siano maledetti!!!” e poi l’ultima spinta. Il piccolo feto è uscito. Il mio bimbo è lì. Il dolore cessa di colpo. Non voglio mettere gli occhiali, vedo una macchia rosa nel wc. Piango. Sono distrutta. Entro in doccia. Acqua calda. Esce la placenta. Tutta. Di botto. Altre due ore di sangue. Poi più niente.

Ci sono stati momenti della vita in cui non ho più voluto vivere. Forse un minuto o due ho avuto questo pensiero dopo quella perdita. Ho avuto la mia bimba morta in grembo per 3 settimane. Ho avuto il tempo di dirle addio. E grazie per essere stata nelle nostre vite.

L’ultimo capitolo

Dopo questo capitolo ho capito che siamo arrivati al the end. Ammesso che la situazione sanitaria in Italia non torni a essere come dovrebbe essere, non come era. Primum non nocere. Così sia.

Sono passati dei mesi. Trovo una bravissima chiropratica. È un angelo di donna. Mi visita, mi dice che le ovaie sono “girate” (uno dei primi effetti collaterali della fecondazione assistita, che ovviamente ho scoperto recentemente). Mi chiede se voglio intervenire. Le dico sì, io voglio un figlio più di ogni altra cosa. Io sono magra e lei con le mani mi gira le ovaie. Fa un po' male ma sono contenta e speranzosa. Mi da una tisana alle foglie di lampone. Era la terza settimana di maggio. Dopo una settimana sento, per la prima volta dopo 5 anni circa, le mie ovaie che lavorano, mi fanno male come un tempo, rivedo il muco cervicale, che non vedevo da tempo. Dopo altre due settimane salto il ciclo. Subito test. Subito positivo. Torno dalla chiropratica, la ringrazio, mi dice vedrai che andrà bene. Parliamo del parto in casa. Io già convinta. Mio marito meno. Io non voglio andare in ospedale. Lei mi appoggia e mi sostiene.

8 settimane+5giorni, prima visita. Prima eco. Visita privata da una ginecologa omeopata molto gentile. Ci accoglie. È serena. Non c’è battito. È troppo piccolo. No. Forse due. Sono due. Siamo distrutti. Distrutti. Non so se avrò la forza di raccogliere i pezzi. La dottoressa chiama una collega dell’ospedale San Gerardo di Monza, le spiego il mio problema in caso di terapia: non posso infilarmi una cosa lunga su per il naso. Ho un trauma cranico. La gamba che manca si vede, quello che non si vede è che la mia faccia è stata ricostruita. Ho placche di titanio in faccia. Ho un trauma. Non posso. Fatemi fare il salivare. Non fatemi entrare nulla nel naso, vi scongiuro.

Mi promette che non me lo fa fare, ma è una promessa che non può mantenere. Quando vado a fare il controllo in ospedale mi parla di questo tampone. La richiamo, cerco di farle capire: è un trauma. Non posso, vi prego, capitemi. No. Il protocollo vuole questo. Posso farti quello più corto dei bambini. Guardo i video. Questo non è corto. È meno lungo. Ma troppo lungo. Non ce la faccio. Spero di abortire in casa come la scorsa volta.

Passano due giorni. Dolori. Vado al Pronto Soccorso di Vimercate. Mi visitano. I due embrioni si stanno staccando ma è passato troppo tempo. Ormai sono morti da troppo. Bisogna fissare una data per il ricovero. Spiego il mio problema, ma non ce n’è nemmeno bisogno perché quando l’infermiera mi misura la febbre con il termometro nell’orecchio salto per aria. È più forte di me. Ho paura che mi infilino qualcosa nella faccia. Ho fatto deltaplano, paracadute, sono andata in moto per 10 anni ma non posso farmi infilare nulla in naso e orecchie. Forse questo trauma doveva uscire, prima o poi.

La dottoressa capisce, ma c’è il protocollo, comunque domani mi chiameranno per risolvere. Mi fissano la data per fornirmi le prostaglandine che servono per stimolare l’utero a contrarsi, dopo una settimana. Il giorno dopo l’ospedale mi chiama. Due telefonate. Nella prima spiego il mio disagio: “Vi prego fatemi fare un salivare, prelevatemi il sangue, ma non mi infilate nulla nel naso”. Vediamo, rispondono. Seconda telefonata: “Guardi – mi dicono - possiamo solo farle quello corto nasale, altrimenti deve rivolgersi a un altro ospedale”. Accetto in teoria, ma non accetto la pratica. Quindi se non accetto mi lasciano morire d’infezione? So che devo trovare una soluzione. La mia salute mentale è importante tanto quanto quella fisica. Mens sana in corpore sano. Ma non finisce qui, perché subito dopo sento quello che non voglio sentire: “Senta signora, ma lei è vaccinata?” e io rispondo “Ma no, scusi, sono incinta, o meglio lo ero. Quindi no”. I quindici minuti successivi le servivano per cercare di convincermi a iniettarmi il farmaco sperimentale, quando ancora non avevo risolto il mio problema più grande. Li ho dentro, morti, da due settimane e mezzo. Quello è il mio problema!

Sono disperata. Non so cosa fare. Chiedo a Daniele - che intervistò la dottoressa Silvana De Mari - il suo numero. La dottoressa mi richiama, sente la mia storia, si commuove, si attiva: mi lascia il numero di Rachele Sagramoso. Sento Rachele. Risento un po' di speranza. Rachele mi lascia il numero di una donna meravigliosa, una ginecologa che mi fa accettare nell’ospedale in cui lavora senza costringermi a questa pratica per me impossibile. Faccio 700 km per andare da lei, in un’altra città, accompagnata da mio marito, che mi appoggia in tutto.

Questa donna fantastica mi ascolta, mi capisce, mi accoglie, mi aiuta: è sempre presente durante le visite. È passato troppo tempo, non possiamo più aspettare: mi inseriscono le prostaglandine. Vado in albergo. Iniziano le contrazioni dopo 3 ore. Nell’albergo non c’è spazio. Ho dovuto togliere la protesi. Sono io, con una gamba, due stampelle e mio marito. Cinquanta volte mi sono alzata con i dolori, con i crampi, per buttare fuori tutto. Una di queste volte la stanza si è riempita di sangue. Mio marito ha pulito. Si è impressionato. Vuole portarmi in ospedale ma io non voglio: ce la faccio. Siamo io e lui. Cinque ore. Il dolore si affievolisce, io cerco di raccogliere quello che rimane dei miei figli, cerco di raccogliere le forze, cerco di raccogliere i pezzi del mio cuore infranto. Mio marito è con me. Mi accarezza e piange con me. Siamo soli.

Recito mentalmente l’Eterno Riposo. Le due anime mi hanno lasciata. Le ringrazio.

La mia storia non è ancora finita, perché devo ancora eliminare qualche piccolo residuo e prego Dio che mi faccia togliere tutto con il prossimo ciclo ovarico. Mio marito ed io siamo sfiniti e ci rendiamo conto di non poter più affrontare una situazione medica in cui i protocolli vengono prima del benessere della persona. Prego per la nascita di ospedali etici con medici che rispondano al giuramento di Ippocrate, prima di vederci ricatapultati negli anni ‘60 e chiedere l’intervento di medici che operano nell’illegalità.

Mi chiedo dove sia la compassione, l’amore per il prossimo, la volontà di fare del bene. Forse queste anime, questi bambini, non restano perché hanno paura. Vi sono stati molti momenti, dalla perdita della mia gamba, in cui mi sono chiesta se sarei stata comunque una brava madre, anche se incompleta. Mi sono chiesta come avrei gestito molte cose, ma non mi sono mai data per vinta perché sentivo di poter essere una madre amorevole. Avrei dato tutto l’amore ai miei figli. Ora, però, non so più se sia giusto farli nascere in questo mondo».

Il Covid ha portato tanto e, per quanto mi riguarda, ha portato l’aumento della Violenza Ostetrica: pensiamo, ad esempio, alle donne obbligate a partorire senza i padri dei loro bambini accanto (gli “accompagnatori della partoriente” sono i mariti/compagni delle medesime nel 92,9%% dei casi) (cfr Appello per non lasciare le donne sole durante il parto). Se è pur vero che tante ostetriche alle quali va il mio plauso personale, si sono veramente impegnate perché le donne non si sentissero abbandonate nel momento più importante della loro vita, in tantissime situazioni conosco donne che hanno subìto trattamenti orribili e interventi ostetrici non necessari e hanno dovuto far fronte a dolore psicologico e fisico sole (e con un bimbo da accudire). Come chi mi legge sa bene, la Violenza Ostetrica è oggettivamente fisica, ma è anche psicologica. Non è un caso che alcuni parti siano vissuti, nel post-nascita, come veri e propri Disturbi Post Traumatici da Stress: ricordo infatti che tante donne, dopo un primo figlio, non ne desiderano altri proprio per evitare traumi psicologici e spesso fisici, devastanti. Al netto di questo, come accade con il post-aborto, sarebbe il caso di fornire alle donne un sostegno psicologico post-parto di routine, ma se fosse offerta questa possibilità alle donne (le utenti del SSN) una cospicua parte di operatori sanitari che lavorano nei servizi di ginecologia e ostetricia dovrebbe trovarsi un altro mestiere.

Viviamo in una cultura intrisa di psicologismi a tratti esagerati: se c’è però un ambito il cui peso è stato invece negato per decenni, è l’aborto. Soprassedendo tutta l’oramai enorme letteratura sulla portata psichica di quello volontario, è drammatico il fatto che in pochi operatori accettino l’enorme sofferenza di quello spontaneo. In qualunque momento accada, che un bambino sia stato voluto o meno, la perdita di un bambino distrugge la mamma. Sono state fatte campagne di sensibilizzazione, organizzati convegni, pubblicati libri: tutto pur di dar voce alla scomparsa di quei bambini che per un frammento della loro vita, sono cresciuti nel grembo delle loro mamme che li hanno amati enormemente. Il dolore di madri e padri, che per un attimo o 40 settimane hanno visto il loro amore sviluppare manine, piedini, nasino e bocchina perfetti, hanno - negli ultimi anni – trovato voce pubblica.

E Claudia e Piero non avevano il diritto di soffrire per la loro perdita? Evidentemente nessuna morte è più importante di un protocollo da applicare. Eppure in anni di ostetricia ne ho viste di violazioni dei protocolli per aiutare le madri: medici e ostetriche coraggiosi che hanno aiutato le mamme magari a partorire dopo uno o due cesarei, o hanno aiutato mamme non applicando i protocolli (la vita non è un protocollo). Nel caso di Claudia e Piero bastava possedere un grammo di tatto: due genitori che hanno perso – di nuovo – un bambino (o due, come nel loro caso) non possono essere abbandonati per un protocollo: la dottoressa con la quale ho messo loro in contatto, ha potuto aiutarli nel rispetto dei protocolli, infondo.

E che dire, invece, di tutte le volte che ho visto medici violare i protocolli, i limiti etici, i limiti morali e i limiti legali per evitarsi dei problemi medico-legali? Oppure devo parlare del medico che rimandò un cesareo necessario per farsi la studentessa disponibile e il neonato è cerebroleso? Cerchiamo di essere chiari: il caso di Claudia e Piero apre gli occhi – ce n’è ancora bisogno? – sulla malattia delle professioni di cura, che stanno soccombendo verso la cattiveria e verso la più assoluta disumanità.

E adesso un piccolo auspicio, da parte mia.

Che la maternità torni alle ostetriche.

Che si torni a buttare fuori dalle stanze del parto chi vuole abusare di farmaci e manovre.

Che le donne siano aiutate a mantenere la loro fisiologia.

Che le ostetriche possano sollevare la testa e dire “Basta!” alla medicalizzazione della gravidanza e del parto (NB: anche la fecondazione extracorporea e l’aborto sono una medicalizzazione della gravidanza…)!

Che le madri e i padri che hanno difficoltà ad avere bambini siano aiutati attraverso le NAPROTECNOLOGIE.

Che le madri e i padri che perdono i loro bambini, possano piangerli.

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