La madre mi chiamò riferendomi il fatto che la figlia diciottenne fosse gravida.
Nulla di strano fino a qui, se non che la donna era del
tutto intenzionata ad aiutare la figlia ad abortire. Durante la
telefonata, il cui tono era concitato e comprensibilmente confuso,
desiderava chiedermi se, tramite ipotetiche conoscenze con l’ASL, io
potessi affrettare l’intervento. Mi ritrovai ad ascoltare una donna di
neanche 40 anni che cercava di autoconvincersi che la figlia facesse
bene a interrompere la propria gravidanza. Sottolineò che aveva
prenotato l’intervento molto lontano da casa in modo tale che nessun
conoscente potesse entrare in contatto per sbaglio con lei (quindi,
evidentemente, si vergognava della scelta della quale si arrogava il
diritto).
Pretendeva di sapere il motivo per il quale non in tutti gli
ospedali viene data la pillola abortiva. Era sconvolta e le sue parole
erano realmente sconclusionate. Parlava di diritto della figlia e di
libertà della donna a fare del proprio corpo ciò che desidera e, dopo
averla lasciata parlare, cercai di renderla consapevole del fatto che
sua figlia avrebbe realmente avuto dei problemi psicologici in seguito a
una scelta compiuta non solo sull’onda emotiva dovuta alla giovane età
(anche se a 18 anni, che da un pene escano gli spermatozoi in grado di
risalire l’utero fecondando un ovocita, mi sembra una lezione di
biologia delle più banali), ma anche del fatto che la madre stessa fosse
stata coinvolta e le fosse stata addossata la responsabilità di
aiutarla a ‘risolvere’ il problema. La donna era consapevole del
concetto, nonostante a tratti lo negasse, che la figlia avesse l’età non
solo per avere rapporti sessuali responsabili (“Se me l’avesse detto,
che aveva iniziato a fare esperienze, le avrei dato la pillola! Eppure a
scuola glielo dicono di stare attenti!” ha ripetuto due o tre volte) e
che avesse l’età fisica e mentale per occuparsi di un figlio (“Alla fin
fine io l’ho avuta a vent’anni! E che ci vuole a tirare su un bambino da
giovani?!”), ma che fosse anche il caso che la risolvessero lei e il
suo ragazzo (che era già, a suo dire, desaparecido), e che lei non voleva la responsabilità della situazione.
Analizzando
a freddo quello che era accaduto e che stava accadendo, dopo la
telefonata, ritengo importanti molte considerazioni. Prima di compierle,
è fondamentale che io compia uno sforzo mentale: la donna che vuole
abortire o quella che sta abortendo o quella che ha abortito, non
desidero giudicarle: loro non sono abortiste, loro sono vittime di un
sistema abortista. Loro non sono quello che hanno scelto di compiere.
Loro sono donne.
Qualunque donna, rimasta incinta magari senza averlo calcolato con
attenzione, può vivere una situazione di confusione: una sorta di fase
ambivalente, figlia della nostra epoca. Cinquant’anni fa c’era poca
ambivalenza che tenesse: una volta gravida, partorivi. Non so come fosse
poichè immaginare quella situazione non ne sono capace: mi preme far
capire un concetto importante su questo fatto, vale a dire che la donna
in crisi da gravidanza non programmata esiste e va compresa.
Quello che mi preme sottolineare è che la mentalità abortista ha
reso l’aborto un contraccettivo, una “soluzione al problema” che
raccoglie la donna che vive la sua comprensibile situazione di crisi
(che spesso viene superata anche solo grazie all’ecografia che mostra il
bambino) e le dice di non preoccuparsi, che è possibile dribblare il
destino che la vorrebbe madre, che le lava il cervello illudendola che
lì, di un bambino, non c’è traccia. Quello che la mentalità abortista ha
realizzato, è semplicemente una deresponsabilizzazione della donna che è
costretta a riporre la propria fiducia non nella sua mente, nelle sue
capacità e nella sua naturale predisposizione, ma nell’azione di farmaci
e medici (altrimenti definita medicalizzazione).
La liberazione delle femministe non ha reso la donna più libera, ma schiava di qualcun altro e di qualcos’altro.
La donna che sente di voler abortire si reca nell’ambulatorio
(consultoriale o ospedaliero) e lo richiede: cosa accadrebbe se trovasse
una persona che, invece di fornirle il suo “foglio di via”, la
ascoltasse e la aiutasse a capire di chi lei vorrebbe liberarsi?
Il procedimento è stato reso asettico e spesso banalizzato: questo, a
mio modestissimo avviso, poichè anche qualche operatore si rende conto
consapevolmente del fatto che quello che sta chiedendo la donna (perchè è
suo diritto farlo) non è realmente ciò che la donna vuole. Forse è
quello che crede di volere sull’onda emotiva della situazione, ma io di
rado ho ascoltato donne ammettere di avere fatto la scelta giusta (forse
alcune giustificando il fatto che il figlio era dell’uomo sbagliato),
di più ho udito donne dire: “Se tornassi indietro, non lo farei”.
La
donna che cerca aiuto per interrompere la vita del proprio bambino, ha
bisogno di qualcuno con cui condividere la situazione e che le sia da
guida: più spesso qualcuno da delegare. Spesso l’uomo che ha accanto,
educato a non essere responsabile dei propri spermatozoi (un uomo mi
disse candidamente che sua madre gli aveva insegnato che era la donna,
l’ “amministratrice” degli spermatozoi, non lui), non è capace di
aiutarla e supportarla: reso incapace nel proprio ruolo e, oltrettutto,
svuotato della propria responsabilità anche dalla Legge (nessun uomo, in
Italia, può costringere o impedire l’aborto del proprio figlio), è una
figura assente.
“L’utero è mio” hanno insegnato le femministe, e gli uomini si sono
dovuti adeguare. Se invece l’uomo osasse pensare che gli spermatozoi
sono i suoi, che il patrimonio genetico ch’egli ha trasmesso è il suo,
che il figlio nel grembo della donna è per metà una sua creatura e che
l’altra faccia della medaglia della libertà (quella di eiaculare) è la
responsabilità (quella di dare un padre, una madre e una famiglia, al
nascituro), la donna si sentirebbe accolta. L’aborto subìto dall’uomo è
figlio anch’esso dell’erroneo messaggio “l’utero è mio”, poichè solo
teoricamente è così: l’altra metà dei cromosomi di quell’essere vivente
che, ignaro, cresce in quell’utero, è del maschio che avrebbe diritto di
dire la sua. Ma ci hanno insegnato che se l’uomo si volesse far valere,
sarebbe misogino, se l’uomo osasse tentare di “risolvere il problema”
non eliminandolo ma adattandosi alla situazione, sarebbe maschilista.
E
così l’utero è della donna, ma quella che soffrirà di più di ogni tipo
di evento a catena, causato dall’idea primaria che l’utero è un organo
di cui ella dispone a proprio piacimento, sarà proprio lei.
Quella ragazza che ha subìto due ore di informativa d’igiene
sessuale frammista a nozionismo biologico (leggasi “ora di educazione
sessuale”) e che si è trovata a non saper gestire le proprie pulsioni
(chiunque sa che la donna è stata creata perchè durante il periodo
ovulatorio abbia più voglia di accoppiarsi: guarda che caso) e quel
ragazzo che non è mai stato edotto sul fatto che, una volta iniziato a
eiaculare, non si può tornare indietro e che, quindi, bisognerebbe
capire che l’eiaculato è potenzialmente procreativo, sono due vittime di
un sistema abortista-contraccettivo e igienista, cieco alle
responsabilità, che ha mutato la capacità dell’essere umano di essere
consapevole di se stesso. La ragazza che, sola, si trova a investire la
propria madre di quella che è effettivamente la sua responsabilità
(quella della madre di crescerla informata è stata sostituita con la
lezioncina scolastica: ennesimo sintomo di un’incapacità sociale di
comunicare coi propri figli su quali siano realmente le cose importanti e
giuste della vita), è un dato importante: le donne non sono più capaci
di assumersi i propri oneri. Dire “Io ho voglia di accoppiarmi (spesso
ci sono termini un po’ meno desueti) e siccome ne ho voglia lo faccio”,
non è più una frase che viene nemmeno pensata poichè sarebbe sinonimo di
un troncamento dei propri diritti. E questo accade perchè i corsi di
educazione sessuale sono un insieme di termini creati per fuorviare
dalla realtà e obnubilare la mente: quando la donna del mio racconto mi
chiese a proposito della pillola abortiva, io mi limitai a spiegarle che
la figlia, magari sola e a casa loro, avrebbe potuto partorire il
proprio figlio morto per causa sua. Lei mi rispose che nessun medico
gliel’aveva prospettata così, anzi: pareva essere la panacea rispetto
all’intervento chirurgico!
Dare il nome alle cose e alle persone fa parte di un progetto
dissacrante nei confronti della vita che ha portato a pensare di essere
degli dei di noi stessi: dire che l’utero è nostro è dover ammettere
anche che quando il medesimo matura dei tumori, siamo noi ad averli
fatti venire, cosa antiscientifica e, oltrettutto, cretina. Delegare
qualcun altro della risoluzione dei problemi che ci troviamo ad
affrontare nella nostra vita e che, magari, ci siamo anche creati, è il
campanello d’allarme che abbiamo perso completamente di vista la
capacità di capire che nella vita funziona benissimo il 3° principio
della dinamica (“Ad ogni azione corrisponde una reazione pari e
contraria”). Arrivare a pensare che la vita non sia sacra (il concetto
che l’essere umano aveva, era quello secondo cui qualcuno o qualcosa ci
da la vita che per questo è un dono, e di conseguenza va rispettata) e
che sia solo frutto dell’unione di due gameti che a piacimento possiamo
unire o distruggere, ci ha del tutto ingannato e, poichè è un inganno,
dobbiamo mentire a noi stessi per continuare a sopravvivere. Mentire ci
permette di andare avanti, di guardarci allo specchio: se la donna del
mio racconto si guardasse allo specchio, vedrebbe quello che realmente
è: una madre inetta che ha delegato la società/televisione/scuola/ internet
a fare quello che avrebbe dovuto compiere lei, una donna che, poichè si
sente in colpa delle sue mancanze, cerca di aiutare una figlia che si è
comportata in modo immaturo poichè nessuno le ha assegnato un bel
ceffone sul viso apostrofandola con un: “Prenditi le tue
responsabilità!”.
Quindi
mente: mente poichè la società abortista l’ha erudita sul fatto che
l’utero sia suo, ma in realtà il “suo” è riferito alla società medesima
che ha lobotomizzato le persone, istruendole sulla disgregazione
dell’essere umano in segmenti distaccati (è riuscita a farlo con la
medicina microparcellizzandola) e tramutando i concetti ovvi (La vita è
sacra perchè dataci da altro rispetto a noi, quindi non è detto che da
un rapporto sessuale nasca un bambino) in idee e opinioni personali che
ognuno ha il falso diritto di esporre a proprio piacimento (falso
diritto poichè poi io non accetto chi la pensa diversamente da me). Più
nello specifico, la nostra società, divenuta procreatica* (in quanto
tutta la nostra vita ruota sul concepimento: anelato o impedito, dipende
sempre dalla medicina e dalla tecnologia), «Tenta di rispondere a un
progetto utopistico che cela una vera e propria violenza sociale» nei
confronti dell’embrione umano: prodotto, selezionato, prodotto in
eccedenza, eliminato a piacimento. Il nascituro è banalmente
strumentalizzato, e questa «Gestione selettiva delle nascite**», ci
interroga sul rapporto che la società occidentale ha con
l’embrione,«Rapporto fondato – ci dice Bayle – sulla distruzione di
massa di una categoria di esseri umani di cui pretendiamo di ignorare lo
statuto».
Quello che la madre del mio racconto mi ha fatto capire è che il
benessere della vita della sua giovane ma adulta figlia, dipendeva da un
embrione che era di ostacolo alla sua felicità, quello che ho potuto
constatare è che il raggiungimento della felicità parrebbe essere
realmente l’obiettivo dei genitori di una generazione senza regole che
soffrirà pene più grosse di tutte le generazioni passate, cresciute con
limitazioni cospicue e più tangibili. Non importa se per la felicità
della figlia (o per lo meno su una percezione di serenità temporanea) è
necessario passare sulla pelle di qualcun altro. Umilmente poichè non
sono del ramo, io ho sentito solo poche persone affermare che ognuno ha
il diritto di stare bene e di ascoltare i propri bisogni anche se questo
potrebbe far soffrire altri (i possibili figli, ad esempio), ovvero gli
psicologi. Spiace affermarlo, ma la categoria ha creato, nella mia
mente, molti dubbi sul loro ruolo sociale e sanitario. Tant’è che
proprio una psicologa si è arrogata il diritto di mimare un aborto (con
tanto di bambolotto sanguinolento) di fronte a una chiesa, il giorno
della celebrativa festa della donna. Questo è tutto dire, sull’effettiva
libertà della donna che potrebbe diventare quella di non abortire, ma di mettere al mondo i figli che desidera.
Quando
la famiglia composta da 18 persone (16 figli tutti figli dei medesimi
genitori) si presentò sul palco di san Remo, a me sembrò corretto
affermare che uno fa i figli che gli pare (non è più l’epoca della prole
utile al lavoro, quindi è probabile che i genitori sanno quel che
fanno): una donna, madre di due figlie nate con fecondazione eterologa
fatta fuori Italia e nate con taglio cesareo d’elezione nel nostro
Paese, ebbe a controbattermi che la madre di quei 16 figli aveva
approfittato del Sistema Sanitario Nazionale perchè con 16 gravidanze e
parti sicuramente aveva avuto bisogno di cure. A me, che di figli ne ho
solo 5 e che l’ultima volta ho partorito in 3 ore approfittando della
degenza ospedaliera di 12 ore, mi sembrava molto strano, come
ragionamento: probabilmente per me la gravidanza è ancora un segno di
salute e il corpo della donna sana sa partorire, e se un bambino è
accolto in una famiglia unita (sono di quelle ostraciste che crede che
la separazione dei genitori faccia bene a loro, ma male alla prole) è
sempre qualcosa di buono.
Ma forse per me è un’ovvietà.
* definizione del dottor Benoit Bayle, psichiatra francese.
** definizione di Danielle Moyse citata da Bayle
PS: Non so che fine abbia fatto quella persona generata dalla diciottenne, ma la sogno in braccio a una giovane coppia.
Dal sito lacortedeiliberi.it