Non pensavo
sinceramente che avrei più ricordato quel brutto evento al quale
partecipai attivamente come studentessa del corso di laurea ostetricia,
quando fui istruita su come sia necessario ovviare al problema dell’
attaccamento madre-bambino se avviene il parto di una mamma che poi
vuole disconoscere il proprio figlio per vari motivi.
La donna in
questione era una carcerata che desiderava dare in adozione la propria
creatura: il team mi spiegò che in questi casi si assiste al parto, si
fa in modo che il bimbo pianga la prima volta lontano dalla sua mamma e
che dev’essere immediatamente accudito in modo ‘distaccato’ dalle
infermiere (cosa che raramente fanno, coccolandoselo nonostante le
‘indicazioni’) e si aspetta sino al momento in cui viene ritenuto
dimissibile dal nido e in grado di poter essere preso in custodia dai
genitori adottivi (che in genere arrivano poche ore dopo la nascita).
Le ostetriche
mi spiegarono tutta questa procedura che era stata spiegata loro dal
primario, usando la parola ‘mamma’ e sottolineandomi con serietà che lo
facevano perchè la donna che da alla luce un bambino è e rimane una
Mamma in qualsiasi caso: che il bambino muoia durante la gravidanza (una
mamma è comunque mamma anche se avviene un aborto a 5 settimane),
durante il parto o dopo la nascita, o che le venga allontanato.
Su questa
questione in Italia ci sono tantissimi movimenti che hanno preso a cuore
l’importanza del legame che viene a crearsi tra la mamma e il proprio
bambino, sia durante l’endogestazione (il periodo che il bambino
trascorre nell’utero), sia durante l’esogestazione (il periodo che il
bambino, se pur nato, trascorre ‘fuori’ dalla mamma, ma pur sempre
bisognoso di contatto). Lorenzo Braibanti, uno dei padri della nascita
dolce in Italia parimenti a Fédérick Leboyer in Francia, divulgò e fece
numerosissimo seguito al suo modo di reinterpretare l’assistenza alla
nascita dolce: il fatto che si possa accudire una donna in modo tale dal
rispettarne la naturale secrezione ormonale ossitocinica che serve sia
per il parto (“riflesso di eiezione del feto” lo chiama Michel Odent,
altro ‘padre’ dell’assistenza alla nascita rispettata), sia nella fase
della reciproca conoscenza che avviene nell’immediato momento dopo la
nascita -nella quale di ossitocina ne viene prodotta molta di più che
per il travaglio e ne verrà prodotta molta ogni volta che la donna
allatterà la propria creatura-, ha mosso centinaia di migliaia di
operatori sanitari in tanti anni da quando tali teorie sono state
diffuse, a redigere fiumi di testi che oserei definire ‘bibbie’
dell’assistenza alla nascita. Ogni anno sono moltissime le iniziative
che tante organizzazioni associative sia di operatori, sia di utenti del
mondo della nascita, promuovono a favore del miglioramento
dell’assistenza alla famiglia nascente. Negli ultimi tempi, grazie
all’apporto delle opinioni secondo le quali la gravidanza e la nascita
debbono ricevere rispetto in ogni loro fase, grazie agli studi che
evidenziano quanto sia importante tutelare la fisiologica evoluzione
dell’attesa, e quanto vada rispettato il momento in cui il neonato viene
alla luce, si sta sollevando una grande attenzione nei confronti di
tutte quelle pratiche scorrette e illogiche che creano veri e propri
traumi fisici e psichici nella donna, che si riuniscono tutti nella
calzante dicitura violenza ostetrica.
In passato la
donna che dava alla luce, in qualsiasi momento della gravidanza, una
creatura morta, non era molto presa in considerazione: le si diceva di
non preoccuparsi, di cercare un’altra gravidanza e di dimenticare il
brutto evento ‘cacciandolo’ in fondo alla memoria. Mia nonna partorì un
maschietto di sette mesi in un’epoca nella quale in quella fase di
sviluppo, in pochi sopravvivevano: lo sentì piangere, prima che
spirasse. Aveva trent’anni e già una figlia, ma questo non le impedisce
di parificare tutt’oggi la morte del proprio neonatino, alla morte per
meningite della propria sorellina avvenuta nel 1938. Per entrambe le
perdite piange ancor’oggi a 89 anni. Oggi come oggi le famiglie alle
quali accade di perdere un bambino a qualsiasi settimana di gestazione
(7, 17, 27, 37 non è importante) possono contare su molte iniziative
volte al creare intorno a loro una fitta rete di professionisti o meno,
che le fanno sentire meno sole, le aiutano a verbalizzare il loro
dolore, a dargli un senso, a rielaborare il lutto. Conoscevo una Doula
(una donna che si occupa delle altre donne durante la fase della
maternità, figura purtroppo non ancora riconosciuta ufficialmente) che
aveva basato la propria assistenza alle donne tutta sul prendersi cura
delle famiglie nelle quali avveniva un lutto perinatale a partire dal
momento della diagnosi (“Mi spiace, non c’è più il battito” è la triste
frase che tanti sanitari pronunciano tante volte), sino al creare
eventi commemorativi per queste famiglie con lo scopo di dar vita a una
rete di autosostegno. Sono diverse le associazioni che in tutto il mondo
studiano come diminuire ogni anno la frequenza delle morti in utero e
la cui forza d’animo è tangibile anche dal punto di vista scientifico,
oltre che umano. Dal punto di vista della pratica assistenziale nei
confronti della gravidanza, nonostante ci sia un po’ di lentezza
nell’ottemperare alle disposizioni di buonsenso di varie associazioni
nazionali, recepite in alcuni protocolli ospedalieri, molti operatori
sanitari hanno rivoluzionato ormai da anni il modo nel quale le
gravidanze fisiologiche sono seguite e monitorate: la salvaguardia della
salute nel rispetto della naturalità dello svolgersi della gravidanza
tenendo letteralmente lontana la medicina dalla donna, se non ce n’è
un’effettiva necessità, hanno consentito a persone del calibro di Ina
May Gaskin (il cui nome è usato anche per denominare una manovra
ostetrica salvavita) e Ibu Robin Lim (premiata ostetrica pacifista del
Bumi Sehat a Bali) di contagiare centinaia di operatori sanitari che
ogni giorno cercano di non disturbare il momento della nascita di un
nuovo essere umano e che sensibilizzano organi istituzionali nei
confronti della prevenzione della medicalizzazione della nascita (e
ovviamente della violenza ostetrica).
Il motto di
tutto questo movimento non può che essere “Cambiare il mondo, mamma dopo
mamma” e ogni qualvolta un gruppo eterogeneo di persone (operatori,
donne, uomini, interessati) si ritrova per discutere di questi temi, si
garantisce la salute della nascita salvaguardandone la naturalità e solo
l’effettivo apporto della medicina, quando realmente necessario. Sheila
Kitzinger (che ci ha lasciato di recente) ‘mamma’ della gravidanza
vissuta consapevolmente e una delle grandi fautrici del parto
domiciliare (o comunque della nascita rispettata) come mezzo per non
creare distacco tra madre e neonato, è autrice delle pagine più belle, a
livello scientifico e divulgativo, sulla gravidanza, sul come
affrontare la comunicazione genitori-figli (il primo approccio
comunicativo è il rispetto dei bisogni del neonato di Contatto e di
Ascolto, che io scrivo con la maiuscola come fossero nomi propri da
quanto credo che siano importanti, come quando scriviamo ‘Amore’ nella
rubrica assegnando il numero del nostro innamorato) e nonni-nipoti, e
sul come capire il pianto del nostro bambino a partire dagli studi sul
modo in cui egli viene al mondo, sino a quelli sul modo in cui nutrirlo
(al seno, ovviamente, è biologicamente corretto, artificialmente è
necessario avere il sostegno per farlo nel modo corretto). Conobbi la
compianta Bianca Buchal e la andai a trovare a Forte dei Marmi, qualche
volta: il suo messaggio, indelebile nel mio cuore, indirizzato a tutte
le donne era semplice “La donna dovrebbe diventare consapevole
dell’importanza della sua funzione e sentirsi la Madre dell’umanità,
poiché solo a lei èstata concessa la capacità di mettere al mondo la
prole. La funzione che la Natura ha dato alla donna è cosìgrande che, se
non la si prendesse in considerazione, si offenderebbe la meravigliosa
forza che gestisce questo straordinario ruolo. La donna, in questa
funzione, diventa una collaboratrice del Creatore, di quella Forza
indescrivibile che è la stessa che ha prodotto tutto ciò che noi
vediamo. Ma l’essere umano non è soltanto un organismo fisico, ma è
dotato anche di intelletto, anima e spirito, che gli consentono di
dimostrare doti di intelligenza e di sensibilità a vari livelli”. Parole
del genere mi aprirono gli occhi in modo irreversibile, quando redigevo
la mia tesi di laurea in ostetricia.
Il Contatto
come mezzo anche per far sopravvivere i neonati che dovrebbero essere
messi in incubatrice, oltre che per quelli per la quale non serve, ha
fatto sì che Nils Bergman fosse uno degli ideatori della innovativa
Cangaroo Mother Care, da decenni famosa e attuata in tutto il mondo: il
bisogno di continuare il rapporto con lo status vissuto sino al momento
prima di nascere, ha rovesciato quella cultura ‘distaccatrice’ e
‘distanziatrice’ che si affermò a metà degli anni ’60 quando il
femminismo pensava che fosse un bene, per la donna, quello di
‘pareggiare’ la sua posizione con quella dell’uomo, non diffondendo una
cultura che valorizzasse le differenze biologiche, sociali ed educative,
ma tentando di far diventare le donne più simili all’uomo dal punto di
vista culturale e politico. La cosa poteva essere interessante da un
certo punto di vista, ma il fatto che da quel momento storico in poi, la
donna smise allattare privilegiando la formula, smise di occuparsi
della cura dei figli privilegiando la carriera (e pensando che una debba
prevalere sull’altra) e smise di assecondare il bisogno di contatto dei
propri bambini, fa di quel periodo un po’ il pezzo peggiore della
‘storia del maternage’. I pediatri ci misero il loro, ovviamente, e fino
a ben poco tempo fa, le ditte produttrici di sostituti del Latte
Materno, avevano in alcuni pediatri i loro più instancabili plauditori:
la situazione della ‘pedagogia del distacco’ è stata così forte, in
occidente, che per far capire ai genitori che le cure prossimali
antropologicamente fisiologiche sono parte dell’educazione infantile
(coccolare un neonato getta le basi per un dialogo fatto di ascolto
reciproco), ci si sono messi un bel gruppo multidisciplinare di
specialisti in tutto il mondo. Per diffondere il modo di vivere la
gravidanza in modo tale che sia rispettata la fisiologia (anche in caso
di patologia è possibile intervenire in modo ‘salutogenico’) e per
divulgare quali siano le potenzialità della comunicazione nel rapporto
mamma-papà-bambini dall’attesa in poi (dove per ‘in poi’ per me
significa ‘ben oltre il periodo prescolare’), fiumi di professionisti
hanno dato molti contributi: educatori e psicologi perinatali (che
lavorano dal momento della gravidanza a ben oltre la nascita del
bambino); pediatri di famiglia influenzati anche da loro colleghi del
calibro di Carlos Gonzales (il suo “Besame Mucho” ha scritto parole
immortali nel cuore di molti papà) e moltissimi altri; ostetriche e
doule (figure diverse e contigue che si occupano della salute della
madre e del nascituro) che si battono per poter assistere dolcemente
alla nascita, ponendo attenzione al momento in cui il bambino incontra
la sua mamma (e ovviamente il papà, importante per il suo sostegno alla
mamma, ma necessarissimo nei casi in cui la mamma debba ricevere
attenzioni mediche poiché il “pelle a pelle” lo può fare anche lui, prma
di riconsegnare il neonatino alle poppe della mamma) come quello nel
quale si gettano le fondamenta di un rapporto che durerà per sempre; si
aggiungono associazioni internazionali attive da decenni composta da
interi plotoni di mamme (quindi di famiglie: la consulente ha sempre un
marito e dei bambini che fanno parte della sua esperienza di donna e
mamma della quale poi ella si fa forte nel trasmettere sostegno e
affetto ad altre mamme) che telefonicamente, via mail, o tramite
incontri -alcuni davvero belli e formativi per tutti- aiutano 365 giorni
all’anno le ‘colleghe’ mamme nel difficile compito di allattare…
Potrei citare
nomi, descrivere facce, elencare titoli di libri di persone che hanno
fatto, a mio parere, la storia delle cure prossimali più
scientificamente corrette e antropologicamente normali per la specie
umana, ma non lo faccio ora… un giorno ne riuscirò a parlare.
Quello che
faccio adesso, dopo la carrellata di pensieri, nomi e messaggi che sono
un sunto, certamente non completo né esaustivo, di ciò che nel mio animo
significa sia mettere a frutto la mia professione, sia mettere in atto
le mie potenzialità di donna a sostegno delle altre donne, riguarda
compiere un ragionamento che mi sta a cuore: diverse mie colleghe
pensano che al centro delle cure di tutti i professionisti della
nascita, deve esserci la donna con i propri bisogni e il proprio
percorso verso un progressivo empowerment. Diverse colleghe e
altri professionisti, promuovono molto questo modo di pensare che, per
me, non è del tutto errato, poiché uno dei presupposti sul quale si basa
è quello secondo cui, se la donna è messa ‘al centro’
dell’evento-nascita e resa consapevole delle proprie scelte, la Salute
sua e della sua famiglia, sarà certamente migliore (il pericolo maggiore
è la delega completa nella medicina anche in casi nei quali il suo
intervento è marginale). Tuttavia questo concetto è assolutamente
incompleto e potrebbe diventare pericoloso: se la donna è colei che è al
centro, il nascituro prima e il bambino poi, è ‘qualcuno’ che sta da
parte. Per non parlare del padre della creatura che spesso non è neppure
preso in considerazione: sembra proprio che la sua presenza non sia
necessaria, concetto errato anche dal punto di vista antropologico e
pedagogico. Il nascituro ‘marginale’ potrebbe diventare non solo un
oggetto di cura in funzione della donna, che dev’essere, secondo questo
concetto, il soggetto attivo che è capace e consapevole, ma un oggetto
fine a se stesso. La donna è passata dall’essere quasi oggetto passivo
(della medicina, della pedagogia…), all’essere talmente attiva dal
vedere un figlio solo in propria funzione: volerlo o meno, nutrirlo come
lo si vuole, usufruirne come gadget per un’autorealizzazione (vuoi
mettere come vanno di moda le carrozzine merlettate o le fasce porta
bebé multicolor?), ma dimenticandosi la funzione educativa e di
‘collaboratrice del Creatore’. Ecco qui che il fatto di mettere la
‘donna al centro’ è un rischio, e tante mie colleghe non l’hanno
valutato: ci si è concentrati molto solo su una parte di tutto il
meccanismo della nascita, ma ci si è dimenticati del bambino e dei suoi
diritti che vanno dal non essere soppresso nel ventre della propria
madre perchè “non è il momento”, al non essere strizzato come un limone a
causa di un parto pilotato, al non essere estratto senza troppa
cortesia in un cesareo programmato, al non essere sculacciato appena
nato, non avere il proprio cordone ombelicale reciso troppo in fretta
fino che non ha smesso di pulsare, al non essere messo sul petto della
sua mamma, al non essere preso in braccio appena sente il bisogno di
Contatto… al non essere trattato non come un oggetto di diritto per
qualcuno, ma come soggetto di diritti.
Ecco, in
tutto questo momento politicamente ed eticamente discutibile, non vedo
dichiarazioni pubbliche di tutti quei professionisti che credono, come
me, in tutto o quasi quello che ho elencato prima. Dove sono le
ostetriche che si battono per la nascita dolce e il pelle a pelle? Dove
sono le consulenti per l’allattamento che auspicano un allattamento che
duri, come da OMS consigliato, almeno due anni? E le associazioni che
smuovono centinaia di mamme per organizzare flash-mob in difesa di una
mamma alla quale è stato chiesto di uscire da un ufficio pubblico perchè
stava allattando? Dove si nascondono gli psicologi perinatali che
auspicano l’ascolto dei bisogni del neonato e del bambino? E le
associazioni che si battono perchè i feti deceduti anche fortemente
pretermine, possano essere sepolti e pianti dalla loro famiglia? Tutte
queste professioni che fine hanno fatto, da quando è possibile generare
un bambino su ordinazione, acquistarne una gestatrice e poi consegnarlo a
una coppia che l’ha ordinato? A cosa serve rinunciare alla difesa di un
nascituro, in virtù di un pollitically correct? Perchè non c’è
una presa di posizione chiara? Che davvero tutte le discussioni che si
fanno in convegni e corsi per professionisti, siano solo chiacchiere da
bar?
A un
importante convegno di ostetriche (Castiglioncello 2007), quando Ibu
Robin Lim disse che tagliare il cordone ombelicale è già un atto di
violenza, ci fu un applauso scrosciante (c’ero e ho i filmati originali,
quindi giù le dita per nascondercisi dietro)… le medesime
professioniste e gli stessi professionisti, dove sono? E’ chiedere
troppo di assumersi la responsabilità di stare davvero dalla parte del
bambino o stiamo ammettendo che una cospicua parte di chi arringa le
folle contro la violenza ostetrica lo fa solo dal punto di vista della
madre? Dove sono le ostetriche che redigono editoriali sull’accoglienza
dolce del neonato? Che ci siano davvero bambini di serie A e di serie B?
A me sembra
ovvio prendere le parti del bambino, che prima ancora è stato neonato,
prima feto e all’inizio è un embrione. Che l’ovvio sia passato di moda?
Dal sito lacortedeiliberi.it