mercoledì 7 marzo 2018

L'attaccamento madre-bambino


Non pensavo sinceramente che avrei più ricordato quel brutto evento al quale partecipai attivamente come studentessa del corso di laurea ostetricia, quando fui istruita su come sia necessario ovviare al problema dell’ attaccamento madre-bambino se avviene il parto di una mamma che poi vuole disconoscere il proprio figlio per vari motivi. 



La donna in questione era una carcerata che desiderava dare in adozione la propria creatura: il team mi spiegò che in questi casi si assiste al parto, si fa in modo che il bimbo pianga la prima volta lontano dalla sua mamma e che dev’essere immediatamente accudito in modo ‘distaccato’ dalle infermiere (cosa che raramente fanno, coccolandoselo nonostante le ‘indicazioni’) e si aspetta sino al momento in cui viene ritenuto dimissibile dal nido e in grado di poter essere preso in custodia dai genitori adottivi (che in genere arrivano poche ore dopo la nascita).
Le ostetriche mi spiegarono tutta questa procedura che era stata spiegata loro dal primario, usando la parola ‘mamma’ e sottolineandomi con serietà che lo facevano perchè la donna che da alla luce un bambino è e rimane una Mamma in qualsiasi caso: che il bambino muoia durante la gravidanza (una mamma è comunque mamma anche se avviene un aborto a 5 settimane), durante il parto o dopo la nascita, o che le venga allontanato.
Su questa questione in Italia ci sono tantissimi movimenti che hanno preso a cuore l’importanza del legame che viene a crearsi tra la mamma e il proprio bambino, sia durante l’endogestazione (il periodo che il bambino trascorre nell’utero), sia durante l’esogestazione (il periodo che il bambino, se pur nato, trascorre ‘fuori’ dalla mamma, ma pur sempre bisognoso di contatto). Lorenzo Braibanti, uno dei padri della nascita dolce in Italia parimenti a Fédérick Leboyer in Francia, divulgò e fece numerosissimo seguito al suo modo di reinterpretare l’assistenza alla nascita dolce: il fatto che si possa accudire una donna in modo tale dal rispettarne la naturale secrezione ormonale ossitocinica che serve sia per il parto (“riflesso di eiezione del feto” lo chiama Michel Odent, altro ‘padre’ dell’assistenza alla nascita rispettata), sia nella fase della reciproca conoscenza che avviene nell’immediato momento dopo la nascita -nella quale di ossitocina ne viene prodotta molta di più che per il travaglio e ne verrà prodotta molta ogni volta che la donna allatterà la propria creatura-, ha mosso centinaia di migliaia di operatori sanitari in tanti anni da quando tali teorie sono state diffuse, a redigere fiumi di testi che oserei definire ‘bibbie’ dell’assistenza alla nascita. Ogni anno sono moltissime le iniziative che tante organizzazioni associative sia di operatori, sia di utenti del mondo della nascita, promuovono a favore del miglioramento dell’assistenza alla famiglia nascente. Negli ultimi tempi, grazie all’apporto delle opinioni secondo le quali la gravidanza e la nascita debbono ricevere rispetto in ogni loro fase, grazie agli studi che evidenziano quanto sia importante tutelare la fisiologica evoluzione dell’attesa, e quanto vada rispettato il momento in cui il neonato viene alla luce, si sta sollevando una grande attenzione nei confronti di tutte quelle pratiche scorrette e illogiche che creano veri e propri traumi fisici e psichici nella donna, che si riuniscono tutti nella calzante dicitura violenza ostetrica.
 In passato la donna che dava alla luce, in qualsiasi momento della gravidanza, una creatura morta, non era molto presa in considerazione: le si diceva di non preoccuparsi, di cercare un’altra gravidanza e di dimenticare il brutto evento ‘cacciandolo’ in fondo alla memoria. Mia nonna partorì un maschietto di sette mesi in un’epoca nella quale in quella fase di sviluppo, in pochi sopravvivevano: lo sentì piangere, prima che spirasse. Aveva trent’anni e già una figlia, ma questo non le impedisce di parificare tutt’oggi la morte del proprio neonatino, alla morte per meningite della propria sorellina avvenuta nel 1938. Per entrambe le perdite piange ancor’oggi a 89 anni. Oggi come oggi le famiglie alle quali accade di perdere un bambino a qualsiasi settimana di gestazione (7, 17, 27, 37 non è importante) possono contare su molte iniziative volte al creare intorno a loro una fitta rete di professionisti o meno, che le fanno sentire meno sole, le aiutano a verbalizzare il loro dolore, a dargli un senso, a rielaborare il lutto. Conoscevo una Doula (una donna che si occupa delle altre donne durante la fase della maternità, figura purtroppo non ancora riconosciuta ufficialmente) che aveva basato la propria assistenza alle donne tutta sul prendersi cura delle famiglie nelle quali avveniva un lutto perinatale a partire dal momento della diagnosi (“Mi spiace, non c’è più il battito” è la triste frase che tanti sanitari pronunciano tante volte),  sino al creare eventi commemorativi per queste famiglie con lo scopo di dar vita a una rete di autosostegno. Sono diverse le associazioni che in tutto il mondo studiano come diminuire ogni anno la frequenza delle morti in utero e la cui forza d’animo è tangibile anche dal punto di vista scientifico, oltre che umano. Dal punto di vista della pratica assistenziale nei confronti della gravidanza, nonostante ci sia un po’ di lentezza nell’ottemperare alle disposizioni di buonsenso di varie associazioni nazionali, recepite in alcuni protocolli ospedalieri, molti operatori sanitari hanno rivoluzionato ormai da anni il modo nel quale le gravidanze fisiologiche sono seguite e monitorate: la salvaguardia della salute nel rispetto della naturalità dello svolgersi della gravidanza tenendo letteralmente lontana la medicina dalla donna, se non ce n’è un’effettiva necessità, hanno consentito a persone del calibro di Ina May Gaskin (il cui nome è usato anche per denominare una manovra ostetrica salvavita) e Ibu Robin Lim (premiata ostetrica pacifista del Bumi Sehat a Bali) di contagiare centinaia di operatori sanitari che ogni giorno cercano di non disturbare il momento della nascita di un nuovo essere umano e che sensibilizzano organi istituzionali nei confronti della prevenzione della medicalizzazione della nascita (e ovviamente della violenza ostetrica).
 Il motto di tutto questo movimento non può che essere “Cambiare il mondo, mamma dopo mamma” e ogni qualvolta un gruppo eterogeneo di persone (operatori, donne, uomini, interessati) si ritrova per discutere di questi temi, si garantisce la salute della nascita salvaguardandone la naturalità e solo l’effettivo apporto della medicina, quando realmente necessario. Sheila Kitzinger (che ci ha lasciato di recente) ‘mamma’ della gravidanza vissuta consapevolmente e una delle grandi fautrici del parto domiciliare (o comunque della nascita rispettata) come mezzo per non creare distacco tra madre e neonato, è autrice delle pagine più belle, a livello scientifico e divulgativo, sulla gravidanza, sul come affrontare la comunicazione genitori-figli (il primo approccio comunicativo è il rispetto dei bisogni del neonato di Contatto e di Ascolto, che io scrivo con la maiuscola come fossero nomi propri da quanto credo che siano importanti, come quando scriviamo ‘Amore’ nella rubrica assegnando il numero del nostro innamorato) e nonni-nipoti, e sul come capire il pianto del nostro bambino a partire dagli studi sul modo in cui egli viene al mondo, sino a quelli sul modo in cui nutrirlo (al seno, ovviamente, è biologicamente corretto, artificialmente è necessario avere il sostegno per farlo nel modo corretto). Conobbi la compianta Bianca Buchal e la andai a trovare a Forte dei Marmi, qualche volta: il suo messaggio, indelebile nel mio cuore, indirizzato a tutte le donne era semplice “La donna dovrebbe diventare consapevole dell’importanza della sua funzione e sentirsi la Madre dell’umanità, poiché solo a lei èstata concessa la capacità di mettere al mondo la prole. La funzione che la Natura ha dato alla donna è cosìgrande che, se non la si prendesse in considerazione, si offenderebbe la meravigliosa forza che gestisce questo straordinario ruolo. La donna, in questa funzione, diventa una collaboratrice del Creatore, di quella Forza indescrivibile che è la stessa che ha prodotto tutto ciò che noi vediamo. Ma l’essere umano non è soltanto un organismo fisico, ma è dotato anche di intelletto, anima e spirito, che gli consentono di dimostrare doti di intelligenza e di sensibilità a vari livelli”. Parole del genere mi aprirono gli occhi in modo irreversibile, quando redigevo la mia tesi di laurea in ostetricia.
 Il Contatto come mezzo anche per far sopravvivere i neonati che dovrebbero essere messi in incubatrice, oltre che per quelli per la quale non serve, ha fatto sì che Nils Bergman fosse uno degli ideatori della innovativa Cangaroo Mother Care, da decenni famosa e attuata in tutto il mondo: il bisogno di continuare il rapporto con lo status vissuto sino al momento prima di nascere, ha rovesciato quella cultura ‘distaccatrice’ e ‘distanziatrice’ che si affermò a metà degli anni ’60 quando il femminismo pensava che fosse un bene, per la donna, quello di ‘pareggiare’ la sua posizione con quella dell’uomo, non diffondendo una cultura che valorizzasse le differenze biologiche, sociali ed educative, ma tentando di far diventare le donne più simili all’uomo dal punto di vista culturale e politico. La cosa poteva essere interessante da un certo punto di vista, ma il fatto che da quel momento storico in poi, la donna smise allattare privilegiando la formula, smise di occuparsi della cura dei figli privilegiando la carriera (e pensando che una debba prevalere sull’altra) e smise di assecondare il bisogno di contatto dei propri bambini, fa di quel periodo un po’ il pezzo peggiore della ‘storia del maternage’. I pediatri ci misero il loro, ovviamente, e fino a ben poco tempo fa, le ditte produttrici di sostituti del Latte Materno, avevano in alcuni pediatri i loro più instancabili plauditori: la situazione della ‘pedagogia del distacco’ è stata così forte, in occidente, che per far capire ai genitori che le cure prossimali antropologicamente fisiologiche sono parte dell’educazione infantile (coccolare un neonato getta le basi per un dialogo fatto di ascolto reciproco), ci si sono messi un bel gruppo multidisciplinare di specialisti in tutto il mondo. Per diffondere il modo di vivere la gravidanza in modo tale che sia rispettata la fisiologia (anche in caso di patologia è possibile intervenire in modo ‘salutogenico’) e per divulgare quali siano le potenzialità della comunicazione nel rapporto mamma-papà-bambini dall’attesa in poi (dove per ‘in poi’ per me significa ‘ben oltre il periodo prescolare’), fiumi di professionisti hanno dato molti contributi: educatori e psicologi perinatali (che lavorano dal momento della gravidanza a ben oltre la nascita del bambino); pediatri di famiglia influenzati anche da loro colleghi del calibro di Carlos Gonzales (il suo “Besame Mucho” ha scritto parole immortali nel cuore di molti papà) e moltissimi altri; ostetriche e doule (figure diverse e contigue che si occupano della salute della madre e del nascituro) che si battono per poter assistere dolcemente alla nascita, ponendo attenzione al momento in cui il bambino incontra la sua mamma (e ovviamente il papà, importante per il suo sostegno alla mamma, ma necessarissimo nei casi in cui la mamma debba ricevere attenzioni mediche poiché il “pelle a pelle” lo può fare anche lui, prma di riconsegnare il neonatino alle poppe della mamma) come quello nel quale si gettano le fondamenta di un rapporto che durerà per sempre; si aggiungono associazioni internazionali attive da decenni composta da interi plotoni di mamme (quindi di famiglie: la consulente ha sempre un marito e dei bambini che fanno parte della sua esperienza di donna e mamma della quale poi ella si fa forte nel trasmettere sostegno e affetto ad altre mamme) che telefonicamente, via mail, o tramite incontri -alcuni davvero belli e formativi per tutti- aiutano 365 giorni all’anno le ‘colleghe’ mamme nel difficile compito di allattare…
Potrei citare nomi, descrivere facce, elencare titoli di libri di persone che hanno fatto, a mio parere, la storia delle cure prossimali più scientificamente corrette e antropologicamente normali per la specie umana, ma non lo faccio ora… un giorno ne riuscirò a parlare.
Quello che faccio adesso, dopo la carrellata di pensieri, nomi e messaggi che sono un sunto, certamente non completo né esaustivo, di ciò che nel mio animo significa sia mettere a frutto la mia professione, sia mettere in atto le mie potenzialità di donna a sostegno delle altre donne, riguarda compiere un ragionamento che mi sta a cuore: diverse mie colleghe pensano che al centro delle cure di tutti i professionisti della nascita, deve esserci la donna con i propri bisogni e il proprio percorso verso un progressivo empowerment. Diverse colleghe e altri professionisti, promuovono molto questo modo di pensare che, per me, non è del tutto errato, poiché uno dei presupposti sul quale si basa è quello secondo cui, se la donna è messa ‘al centro’ dell’evento-nascita e resa consapevole delle proprie scelte, la Salute sua e della sua famiglia, sarà certamente migliore (il pericolo maggiore è la delega completa nella medicina anche in casi nei quali il suo intervento è marginale). Tuttavia questo concetto è assolutamente incompleto e potrebbe diventare pericoloso: se la donna è colei che è al centro, il nascituro prima e il bambino poi, è ‘qualcuno’ che sta da parte. Per non parlare del padre della creatura che spesso non è neppure preso in considerazione: sembra proprio che la sua presenza non sia necessaria, concetto errato anche dal punto di vista antropologico e pedagogico. Il nascituro ‘marginale’ potrebbe diventare non solo un oggetto di cura  in funzione della donna, che dev’essere, secondo questo concetto, il soggetto attivo che è capace e consapevole, ma un oggetto fine a se stesso. La donna è passata dall’essere quasi oggetto passivo (della medicina, della pedagogia…), all’essere talmente attiva dal vedere un figlio solo in propria funzione: volerlo o meno, nutrirlo come lo si vuole, usufruirne come gadget per un’autorealizzazione (vuoi mettere come vanno di moda le carrozzine merlettate o le fasce porta bebé multicolor?), ma dimenticandosi la funzione educativa e di ‘collaboratrice del Creatore’. Ecco qui che il fatto di mettere la ‘donna al centro’ è un rischio, e tante mie colleghe non l’hanno valutato: ci si è concentrati molto solo su una parte di tutto il meccanismo della nascita, ma ci si è dimenticati del bambino e dei suoi diritti che vanno dal non essere soppresso nel ventre della propria madre perchè “non è il momento”, al non essere strizzato come un limone a causa di un parto pilotato, al non essere estratto senza troppa cortesia in un cesareo programmato, al non essere sculacciato appena nato, non avere il proprio cordone ombelicale reciso troppo in fretta fino che non ha smesso di pulsare, al non essere messo sul petto della sua mamma, al non essere preso in braccio appena sente il bisogno di Contatto… al non essere trattato non come un oggetto di diritto per qualcuno, ma come soggetto di diritti.
 Ecco, in tutto questo momento politicamente ed eticamente discutibile, non vedo dichiarazioni pubbliche di tutti quei professionisti che credono, come me, in tutto o quasi quello che ho elencato prima. Dove sono le ostetriche che si battono per la nascita dolce e il pelle a pelle? Dove sono le consulenti per l’allattamento che auspicano un allattamento che duri, come da OMS consigliato, almeno due anni? E le associazioni che smuovono centinaia di mamme per organizzare flash-mob in difesa di una mamma alla quale è stato chiesto di uscire da un ufficio pubblico perchè stava allattando? Dove si  nascondono gli psicologi perinatali che auspicano l’ascolto dei bisogni del neonato e del bambino? E le associazioni che si battono perchè i feti deceduti anche fortemente pretermine, possano essere sepolti e pianti dalla loro famiglia? Tutte queste professioni che fine hanno fatto, da quando è possibile generare un bambino su ordinazione, acquistarne una gestatrice e poi consegnarlo a una coppia che l’ha ordinato? A cosa serve rinunciare alla difesa di un nascituro, in virtù di un pollitically correct? Perchè non c’è una presa di posizione chiara? Che davvero tutte le discussioni che si fanno in convegni e corsi per professionisti, siano solo chiacchiere da bar?
A un importante convegno di ostetriche (Castiglioncello 2007), quando Ibu Robin Lim disse che tagliare il cordone ombelicale è già un atto di violenza, ci fu un applauso scrosciante (c’ero e ho i filmati originali, quindi giù le dita per nascondercisi dietro)… le medesime professioniste e gli stessi professionisti, dove sono? E’ chiedere troppo di assumersi la responsabilità di stare davvero dalla parte del bambino o stiamo ammettendo che una cospicua parte di chi arringa le folle contro la violenza ostetrica lo fa solo dal punto di vista della madre? Dove sono le ostetriche che redigono editoriali sull’accoglienza dolce del neonato? Che ci siano davvero bambini di serie A e di serie B?
A me sembra ovvio prendere le parti del bambino, che prima ancora è stato neonato, prima feto e all’inizio è un embrione. Che l’ovvio sia passato di moda?


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